Francesco Jodice – La pratica dell’arte come poetica civile

Ricevo da Francesco Jodice e molto volentieri pubblico il testo di una sua conversazione con Carlo Sala che ben riassume anche i contenuti del suo intervento tenuto il 23 aprile scorso presso la GAMeC di Bergamo, all’interno del ciclo di incontri ancora in corso sul tema dei rapporti tra fotografia e arte. Nel bello spazio gentilmente prestato da Confindustria Bergamo, Francesco è stato come sempre molto generoso e ricco di stimoli per l’attento pubblico che assisteva, illustrando con chiarezza il senso del suo lavoro da molti punti di vista, dimostrandone l’impegno, la valenza politica e di ricerca, l’attenzione estetica e la complessa multidisciplinarietà.

Francesco Jodice, What We Want, Baikonur, T56, 2008

Francesco Jodice, What We Want, Baikonur, T56, 2008

 

Investigazioni private
Una conversazione con Francesco Jodice
di Carlo Sala

Hai iniziato il tuo workshop a Pieve di Soligo citando uno dei massimi scrittori contemporanei, Jonathan Franzen, che si è profondamente interrogato sulle sorti dell’Occidente. Pensi che stiamo attraversando una crisi culturale e sociale che va ben oltre quella finanziaria di cui tanto si parla?

Proverei a scomporre la locuzione “crisi dell’occidente”: come sappiamo la crisi economica mondiale è iniziata nel 2008 e ha avuto origine negli Stati Uniti con la crisi dei Subprime. Tra i principali fattori della crisi vi furono gli alti prezzi delle materie prime, una crisi alimentare mondiale, un’elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo, una crisi del credito ed un crollo di fiducia nei mercati. Però fin dagli inizi del fenomeno molti analisti ritennero che non si trattasse di una vera crisi, poiché il termine crisi definisce periodo temporale durante il quale per almeno due trimestri consecutivi si ha un arretramento economico, cioè una riduzione del PIL, seguita da una rapida ripresa. Allora una crisi è un modello statistico di durata circoscritta e definita da una “curva di andamento” riconoscibile. A distanza di sei anni dal fallimento della Lehman Brothers mi sembra chiaro che la situazione che noi viviamo non è una crisi ma una nuova era glaciale, un assetto del tutto nuovo al quale col tempo ci adatteremo. Per quanto riguarda la questione occidentale mi sovviene che già molti anni fa Baumann aveva detto che presto i governi dell’occidente avrebbero dovuto affrontare il problema e dire ai popoli che il sistema del Welfare aveva fallito e non era più sostenibile. Questa invece è una crisi: una crisi di modello e di valori etico-culturali.

In tema di crisi e fotografia, un famoso esempio del passato è stata la campagna del 1937 promossa dal governo americano attraverso la Farm Security Administration per raccogliere delle informazioni sui problemi che investivano il settore agricolo. In quell’occasione venne affidato ad alcuni fotografi il compito di creare uno “stato di fatto” sulla situazione del paese allo scopo di sensibilizzare una parte cospicua della popolazione realizzando anche una politica del consenso.
Tu parli di “poetica civile”, quale ruolo possono giocare le arti visive rispetto alla situazione che stiamo vivendo? Come devono porsi gli autori contemporanei per evitare la retorica che ha caratterizzato tante indagini similari?

Molti ruoli ma è necessario intendersi e convenire su quali siano oggi “le arti” e quali i loro ruoli. Nella grande crisi americana la FSA utilizzò la fotografia e i suoi autori non come meri documentatori ma come dispositivi narrativi meta-progettuali, in grado di mostrare ai pianificatori e ai politici alcune linee di sviluppo alternative dei mutati paesaggi sociali americani. Io credo che la fotografia non abbia più quel ruolo, ne ha di nuovi e importanti ma non più quello. Nelle arti visive altri apparati narrativi hanno ora il ruolo di media condivisi (il cinema, i videogiochi, le web series, i virali sulla rete, youtube, etc). Sono altre le dinamiche dell’arte visiva che si fondono con la nostre concezioni di arte pubblica e di poetica civile.

Sono conscio che sei molto distante dall’attribuire alla fotografia un ruolo pedagogico, ma di certo uno dei messaggi che si evincono dalla tua ricerca è di utilizzare questo mezzo per innescare nel fruitore dubbi e spunti critici. Me ne vuoi parlare?

Non ho mai amato la fotografia dogmatica, pedagogica e con la presunzione di esaurire i discorsi. Credo che storicamente l’attitudine a pensare la fotografia come un modello esaustivo di narrazione delle cose del mondo sia una prerogativa di fotografi animati e sostenuti da buoni sentimenti più che da rigorosi processi di intellettualizzazione. Al contrario penso sempre alla fotografia come un luogo che non didascalizza le questioni osservate ma piuttosto le rende ancora più complesse. Per me la fotografia non contiene risposte ma piuttosto è il luogo nel quale impariamo a formulare bene le domande, uno spazio che, una volta attraversato, ci aiuti ad allestire dubbi ben strutturati o domande ben costruite.

Francesco Jodice, What We Want, Dubai, R36, 2009

Francesco Jodice, What We Want, Dubai, R36, 2009

Durante il secolo scorso i grandi avvenimenti e le mutazioni sono stati scanditi dalla fotografia attraverso un dialogo diretto e immediato con la realtà secondo un approccio che oggi appare anacronistico.
Una caratteristica presente nel tuo lavoro è che lo scatto finale – per quanto attento alla tecnica – deve necessariamente essere il risultato finale di un processo basato su una molteplicità di interrogativi e riflessioni. Mi racconti il tuo modus operandi nello sviluppo di un determinato filone di ricerca?

Quando inizio un progetto, ad esempio perché ho ricevuto un incarico site-specific, mi disinteresso quasi completamente della geografia del luogo e della sua fisicità mentre inizio uno scandaglio e una diagnostica dei fenomeni politici, culturali, sociali, economici e religiosi che lo hanno interessato con una attenzione particolare al suo “stato attuale”. Cerco degli eventi o dei fenomeni che per me sono al contempo localistici e universali. Solo quando ho individuato con chiarezza le storie che mi ossessionano inizio a fotografare ed è come se vedessi con chiarezza solo ciò che è inerente a questa casistica. Ecco perché spesso le mie fotografie sono molto elementari da un punto di vista formale ma sotto la apparente tranquillità compositiva restano in tensioni diverse i mutamenti geopolitici.

Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

Che consiglio daresti a un giovane artista che vuole intraprendere un progetto fotografico volto a indagare un tema del presente?

Come intellettuale: Leggere. Connettere. Costruire. Disfare. Ricominciare tutto daccapo.
Come artista: mettersi di traverso.

In ogni tuo lavoro si intrecciamo molteplici spunti caratterizzati sempre da una lucida visione del presente. Attualmente a cosa stai lavorando?

A La notte del Drive-in. Un progetto avviato da poco, allestisco dei drive-in veri e propri nelle piazze periferiche delle città e provoco la partecipazione mista di persone del mondo dell’arte e gente del quartiere come strumento di trasversalità tra arte e società. Ho anche due nuovi progetti fotografici sul paesaggio italiano in corso in Italia di cui uno sul Monte Bianco. Nel frattempo cerco con fatica di portare avanti il mio progetto Citytellers, ovvero una serie di film sulle mutate condizioni socio urbane in diverse geografie del pianeta. Come sai con la Galleria Michela Rizzo di Venezia stiamo da tempo lavorando alla possibilità di realizzarne uno sulla città lagunare.

Hai visitato con noi alcune zone della provincia di Treviso, e in generale conosci il nord-est, come pensi che la crisi abbia mutato questo paesaggio sociale?

In realtà non conosco a sufficienza in nord-est al punto da poter fare un paragone con altre situazioni. Sono rimasto colpito dalla “chiarezza” di questo paesaggio socio-economico, la struttura pulviscolare delle piccole aziende e come questa rete fittissima di opifici e imprese si intersechi in modo inestricabile con la cultura familiare ed una serie di valori culturali, religiosi ed economici che hanno radici antichissime. Ho sentito anche il senso di smarrimento e paura per questa impossibilità di perpetrare quel modello e lo smarrimento per l’incapacità di capire i nuovi modelli economici, i nuovi mercati. Credo che tutto ciò abbia cambiato questo paesaggio proprio perché non gli permette di cambiare: la crisi economica, gravissima, ha congelato il rinnovamento non solo culturale ma anche fisico del territorio, potremmo girare un film e dire che è ambientato negli anni novanta senza temere smentita né dai luoghi architettonici né dalle abitudini quotidiane delle comunità.

Sia con Multiplicity che perseguendo il tuo progetto What We Want, hai indagato varie comunità del mondo. C’è un luogo che ti ha particolarmente colpito ed in cui hai visto una scintilla per il futuro?

I luoghi che ho indagato da solo o nei favolosi anni del collettivo Multiplicity oggi sono dei fossili. A loro tempo tutti sono stati dei paesaggi innovativi ma proprio perché sono diventati dei modelli imitati o contestati, adesso quei modelli sono superati, metabolizzati. Oggi ti direi che mi interessano alcune nuove città del far east, del sud africa e del golfo arabo con tutti i pro e i contro che si possono immaginare. Ma l’importante per me non è mai cosa osserviamo ma il metodo che costruiamo per osservare, non la cosa osservata quanto l’osservatorio in sé. Con Multiplicity ci definivamo “un agenzia di investigazione territoriale”. Era una definizione bellissima, per l’epoca.

 

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