Perché sei un artista

Qualche tempo fa ho scritto una lista, diciamo così, motivazionale a un amico. La pubblico qui, pensando che possa essere utile – magari anche in contrasto rispetto alle posizioni e convinzioni di ognuno – a riflettere su quello che siamo e facciamo. È anche una lista potenzialmente infinita, alla quale ognuno tra sé e sé può aggiungere o togliere voci.

 

Da: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Data: 08 aprile 2015 15.42.36 GMT+02.00
A:
Oggetto: La lista del perché sei un artista

Prima di tutto: non mi sono messo a spiegare diffusamente ogni punto con esempi o altro perché ne sarebbe venuta una mail chilometrica di quelle che spaventano. E rileggendo vedo che anche così non scherza, quanto a lunghezza.
Poi: ci sono molte singole voci nelle quali quasi qualunque persona può riconoscersi – ma pochissime persone, tienilo presente, hanno queste caratteristiche tutte insieme. Prova ad applicare questa lista ad altre persone che conosci e te ne accorgerai subito. Le metto come vengono, in ordine sparso, ovviamente alcune sono più importanti e altre più leggere. Se vuoi che io ne argomenti alcune in modo più chiaro e con esempi di cose che ti ho visto fare posso farlo…

– sei ostinatamente curioso, hai lo stupore e lo coltivi
– sei molto molto molto intelligente
– sei molto onesto con te e con gli altri
– ti piace cucinare
– ti piace studiare, leggere, imparare cose nuove
– sei dotato per le lingue
– sai guardare alla realtà spogliandola, a volte anche crudamente ma con una tua modalità tutta tua
– hai intuizioni sulla parte nascosta delle cose, delle persone, del mondo
– hai il senso del colore e delle proporzioni e delle forme e della bidimensionalità
– hai la voglia, anzi la necessità, di trasferire in qualcosa di concreto i tuoi pensieri
– hai la capacità di covare a lungo un’idea e poi di realizzarla
– fai esperimenti
– sai aspettare e poi agire
– sei estremamente sensibile
– hai sofferto molto, e lo travasi nel tuo lavoro
– fare arte ti salva la vita (almeno un po’), non è (solo) un divertimento o uno svago
– puoi sembrare lentissimo e quasi bloccato ma a un certo punto tutto scatta in avanti
– vedi collegamenti dove altri non possono vederli
– sai istintivamente quando fermarti
– in parecchie cose sei un po’ disadattato nel mondo normale, un po’ lo nascondi un po’ lo vanti
– soffri un po’ di sentirti diverso
– sei diverso ma ne sei anche orgoglioso
– a volte ti fissi su qualcosa in modo quasi maniacale e ci stai sopra un sacco di tempo
– sono poche le persone con le quali riesci davvero ad avere a che fare
– di ogni persona sai beccare in fretta il lato buono e quello pericoloso
– non sei particolarmente interessato al denaro
– riesci a mettere a disposizione degli altri i tuoi risultati
– hai certezze forti, ma le sai mettere in discussione
– hai incertezze forti, ma le sai far tacere quando è il momento
– vuoi bene al mondo tutto, e ti fanno soffrire o arrabbiare le sue contraddizioni
– sai coltivare la tua solitudine intellettuale e sai trovare da solo gli slanci per proseguire
– sei molto empatico, perfino verso gli oggetti
– i tuoi lavori mostrano una crescita progressiva, che indica il tuo spirito di ricerca continua
– sei tendenzialmente perfezionista e dunque anche il più feroce critico di te stesso
– per certi versi ti senti inadeguato, per altri sei davvero a tuo agio
– sai bene che la tecnica può essere una tua arma decisiva
– tieni molto al tuo prestigio, dunque sei attento a quello che comunichi (variante del perfezionismo)
– sai lavorare duro per raggiungere quello che un’intuizione ti ha consigliato
– sai restare ostinatamente sul pezzo
– certe cose le vuoi e devi davvero dire: hai qualcosa da dire e la tua arte ti permette di farlo
– sei unico.

Mi fermo qui ma presto mi verrà in mente altro, lo so.
(non ci pensavo ma, mi rendo conto rileggendo, questa lista è per me anche un po’ un’autobiografia…)
Non in tutto, ci mancherebbe, ma in molte cose sì.

Ciao
Luca

 

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Il vuoto nello scaffale

Il nove maggio 1860 salpa dal porto di Marsiglia una goletta dal nome Emma. A bordo della nave ci sono personaggi importanti della cultura francese, imbarcati per perseguire un ambizioso progetto: quello di realizzare e documentare un Voyage en Sicilie et autour de la Méditerranée. A concepirlo e finanziarlo è uno dei più grandi scrittori francesi di tutti i tempi: Alexandre Dumas.
Prolifico e irruento, Dumas è al culmine della sua fama, e si aspetta grandi cose da questo viaggio:

Quello che voglio vedere, quello che soprattutto voglio farvi vedere, cari lettori, sono i luoghi della storia e anche delle fiabe: la Grecia di Omero, di Esiodo, di Eschilo, di Pericle e di Augusto; La Bisanzio del Basso Impero e la Costantinopoli di Maometto; la Siria di Pompeo, di Cesare, di Crasso; la Giudea di Erode e di Cristo, la Palestina dei Crociati; l’Egitto dei Faraoni, di Tolomeo, di Cleopatra, di Maometto, di Bonaparte, di Mehmet Ali e di Saïd Pascià…

Non c’è spazio, e forse nemmeno bisogno, di tratteggiare qui la figura di Alexandre Dumas. Relegato oggi nell’immaginario comune a scrittore di semplici avventure, Dumas è grandissimo scrittore, prolifico all’inverosimile e finissimo imprenditore di se stesso. La lista dei suoi capolavori comprende decine di opere tra le centinaia prodotte, realizzate anche grazie al supporto di numerosi scrittori prezzolati. Il suo magistrale utilizzo del feuilleton, la pubblicazione a puntate dei suoi romanzi su giornali e riviste di massa, lo fa anche padre delle odierne serie televisive che hanno tanto successo, e che ne utilizzano ancora oggi gli stessi schemi di base.

Gustave Le Gray, Ritratto di Alexandre Dumas, 1859

Gustave Le Gray, Ritratto di Alexandre Dumas, 1859

 

Imbarcato sulla Emma c’è anche un fotografo, in quel momento forse il più grande fotografo di Francia: Gustave Le Gray. Conosce Dumas da tempo, ed è suo il magnifico ritratto che vedete qui sopra, realizzato nel 1859 al ritorno di Dumas da un viaggio in Russia.
Raccontare la straordinarietà della figura di Gustave Le Gray fino al giorno dell’imbarco sulla Emma richiederebbe ben più di un post – ci vorrebbe forse un romanzo alla Dumas. Basti dire che è stato una delle figure centrali della fotografia dell’Ottocento: inventore di nuovi processi, grande stampatore, fotografo dell’Imperatore nonché uno dei cinque fotografi chiamati a realizzare la leggendaria Mission Héliographique del 1851; ritrattista eccezionale, diviene famoso anche grazie alle sue immagini di mare che per la prima volta, con l’utilizzo di tecniche raffinate, riescono a mostrare le nuvole nel cielo e a fermare le onde – le sue marine sono oggi battute a cifre altissime nelle aste, anche se all’epoca vennero vendute in centinaia di copie. Nei cinque anni precedenti al viaggio sulla Emma ha lo studio in quel famosissimo edificio al 35 di Boulevard des Capucines che dall’aprile 1860 diverrà lo studio di un’altra leggenda della fotografia francese, quel Gaspard-Félix Tournachon detto Nadar, che nel 1874 ospiterà proprio lì la prima mostra degli impressionisti.

Gustave Le Gray, Autoritratto, 1856-59

Gustave Le Gray, Autoritratto, 1856-59

 

 

Gustave Le Gray imbarcandosi sulla Emma segna in modo definitivo il suo destino. Non può saperlo, ma non tornerà più in Francia. E pensare che fino anche solo a pochi mesi prima era indeciso se accettare la proposta di Dumas… A deciderlo, probabilmente, la tremenda bancarotta decisa dal tribunale il 1 febbraio 1860, che lo priva dello studio e lo lascia coperto di debiti pesantissimi. Troppo artista e poco imprenditore, dicono le cronache e i commenti delle persone a lui vicine. Imbarcandosi nel viaggio con Dumas, Le Gray sfugge ai creditori e allo stesso tempo è in cerca di riscatto. Come vedremo, l’abbandono che pare temporaneo della sua carriera in Francia, e della moglie con i due figli, diverrà terribilmente definitivo.

Ma torniamo al viaggio della Emma. Partita da Marsiglia, dopo un paio di tappe sulla costa la nave arriva il 18 maggio 1860 a Genova. Qui si ferma per alcuni giorni, perché Dumas ha alcune incombenze da scrittore, tra le quali concludere il secondo volume delle Mémoires di Giuseppe Garibaldi, che sta riscrivendo – e romanzando – su incarico dello stesso Garibaldi.
Alexandre Dumas è un entusiasta sostenitore di Garibaldi, che aveva conosciuto a Torino pochi mesi prima ma del quale aveva già scritto molto fin da dieci anni prima. Non dimentichiamo che Dumas è una delle figure centrali della cultura francese del tempo (che era la cultura dominante dell’epoca, un po’ come quella americana oggi) ma anche una delle più popolari: in sostanza una potenza nella comunicazione, tanto che vi è oggi chi pensa che il decennale lavoro di Dumas intorno alla figura di Garibaldi sia stato decisivo, all’epoca, nel mutarne l’immagine – da quella sudamericana di bandito e sovversivo a quella europea di mitico e disinteressato rivoluzionario attento solo al bene dei popoli. Dovremmo dunque aggiungere alle mille qualità di Dumas anche quella di essere uno spin doctor ante litteram, se consideriamo che Garibaldi gli fu amico e che utilizzò quanto più potè le qualità di Dumas.

È proprio a Genova che arriva, alla fine di maggio, la notizia che Garibaldi è sbarcato a Marsala e che si sta dirigendo verso Palermo – che verrà presa il 27 maggio 1860. Detto fatto, il 31 maggio la goletta Emma parte da Genova diretta a Palermo, dove arriverà il 10 giugno 1860. Il Voyage sta cambiando.
Dumas viene accolto trionfalmente da Garibaldi, che subito ne utilizza le capacità comunicative – tra le altre cose mettendo subito al lavoro il fotografo che li accompagna. Gustave Le Gray si trova così ad essere straordinario corrispondente di guerra, realizzando tra gli altri un potente ritratto di Garibaldi stesso, oltre che di alcuni suoi generali, e vedute della Palermo bombardata, delle barricate e così via. Scrive Dumas, citando un suo dialogo con Garibaldi:

– Avete un fotografo con voi?
– Semplicemente, il primo fotografo di Parigi: Le Gray.
– Bene, fategli fare delle vedute delle rovine; bisogna che l’Europa ne venga a conoscenza: duemila e ottocento bombe in una sola giornata…

e più avanti:

Le Gray passa le sue giornate a fare delle magnifiche fotografie delle rovine di Palermo. Ne spedirò una collezione a Parigi, delle quali si potrà fare una mostra. Vi sono anche un magnifico ritratto di Garibaldi, di Türr e di altri.

Il Voyage sta adattando la sua fisionomia, e Le Gray sembra seguirne le mutevoli fattezze. In ogni caso, quella che mette a disposizione è la sua grande esperienza, e l’immensa qualità del suo occhio.

Gustave Le Gray, Ritratto di Giuseppe Garibaldi, 1860

Gustave Le Gray, Ritratto di Giuseppe Garibaldi, 1860

 

 

Il 21 giugno Dumas, Le Gray e gli altri partono alla volta di Catania via terra con il generale Türr, che tuttavia, molto malato, non potrà proseguire. La colonna si fermerà e il nostro gruppo, tra difficoltà e insolazioni, inizierà qui a soffrire qualche tensione.
Il 7 luglio tutti si reimbarcano sulla goletta che fa rotta verso Malta. Sembra essersi conclusa la parte garibaldina del Voyage, ma Dumas all’insaputa di tutti aveva proposto a Garibaldi:

Caro amico, ho appena attraversato la Sicilia in tutta la sua larghezza. Ovunque c’è grande entusiasmo, ma non ci sono armi! Volete che vi aiuti a cercarne in Francia? Aspetto la vostra risposta a Catania: se voi mi dite “Sì” io cambierò il mio viaggio in Asia e farò il resto della campagna con voi.

È a questo punto che probabilmente esplodono i conflitti forse già latenti a bordo della Emma, e il 13 luglio 1860, clamorosamente, Le Gray e altri due (Albanel e Lockroy) vengono sbarcati senza troppi complimenti sul molo del porto de La Valletta, a Malta. La Emma riparte subito, lasciando i tre con poche risorse economiche, un po’ sperduti in un luogo lontano. Dumas ritornerà da Garibaldi, lo accompagnerà fino a Napoli dove resterà negli anni seguenti con importanti incarichi – ma questa è un’altra storia.

Si decide forse qui il destino di Le Gray, che ad un tratto vede probabilmente sfumare ogni possibilità di riscatto in Francia e al quale ormai tocca arrangiarsi come può.
Il 26 luglio i tre partono per Beirut via Alessandria. Si sono procurati un incarico di Le Monde Illustré come corrispondenti di guerra in Siria, dove sotto le influenze rivali dei francesi, degli inglesi e dei turchi era esploso un conflitto, latente da tempo, tra i cristiani maroniti e i drusi, musulmani. Sulla via per Damasco Le Gray si fratturerà una gamba cadendo da cavallo, e anche questa avventura gli sarà preclusa. Ci restano alcune bellissime fotografie delle rovine di Baalbek, ma già dal 1861 le Gray è segnalato come stabilmente ad Alessandria, in Egitto.

Da qui in poi, ci dicono gli storici, le notizie si fanno frammentarie, i documenti scarsi. Di certo vediamo Le Gray in crescenti difficoltà, pur continuando la sua attività di fotografo. Nel dicembre 1861 muore a Parigi forse l’unico vero amico che gli era rimasto, Léon Manfras, che era anche l’avvocato che curava i suoi interessi tentando di ridurre il grande debito che gravava su le Gray dopo il fallimento dello studio. Con questa morte finiscono in sostanza anche le speranze di Le Gray di tornare in Francia e quello in oriente diventa un inevitabile esilio. È del novembre 1862 una lettera struggente che Gustave invia all'”amico” Nadar, nella quale lo prega di informarsi sulla sua situazione in Francia e, letteralmente, “Tu sai, amico mio, quanto io abbia fatto per la fotografia, dammi una pacca sulla spalla perché io possa venire ancora a pagarne il mio tributo a Parigi“. Non c’è traccia di una risposta di Nadar. La cosa sembra far da contraltare alla sparizione di Le Gray nei confronti della moglie e dei figli rimasti in Francia in gravissime difficoltà. Ad Alessandria Le Gray troverà comunque il modo di lavorare piuttosto bene: Alessandria è città ricca e cosmopolita, piena di stranieri e di viaggiatori, e la sua produzione ci mostra le immagini tipiche di un atelier di ritratto dell’epoca.

Dal 1864 Gustave Le Gray è a Il Cairo, dove aggiunge, a quella di fotografo, la professione di docente di disegno nelle Scuole Militari. Entra anche nelle buone grazie del governo e realizza numerose fotografie di soggetti militari, di rovine antiche, di ritratti della famiglia reale. La qualità del suo sguardo è sempre altissima – il fotografo è sempre vivissimo, pur nelle difficoltà.

 

Gustave Le Gray muore a Il Cairo il 29 luglio 1884. Nel 1883 ha avuto un figlio da una giovanissima donna locale, che ha cercato addirittura di registrare come moglie. Muore in sostanziale povertà, come attestato dall’inventario dei suoi beni trovati in casa, che gli è sopravvissuto al contrario della sua sepoltura. Qualche mobile, qualche vecchio manuale di chimica fotografica, qualche stampa, scarne attrezzature fotografiche, un solo obiettivo. Il destino, cinico e baro, che ha spesso colpito i grandi artisti, si è dato da fare anche con lui.

Il Voyage en Sicilie et autour de la Méditerranée, pieno di scritti baciati dal talento di Alexandre Dumas e illustrato da tante bellissime fotografie di Gustave Le Gray resta un capolavoro invisibile e irrealizzato, un vuoto oscuro negli scaffali dei musei.

 

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I personaggi più ingombranti sono alcune fotografie

Diciamolo subito: Fabrizio Bellomo è stato, qualche anno fa, nel corso che condivido con Francesco Zanot presso il Master in Photography and Visual Design NABA/FORMA uno degli studenti più indisponenti e provocatori, fastidiosi, che abbia mai avuto. Ma i suoi lavori sono sempre stati tra i più brillanti e intelligenti. Credo che ancora oggi sia da questa miscela esplosiva che i suoi lavori traggano la fascinazione che si meritano.

Fabrizio Bellomo ha oggi già raggiunto e superato quella prima soglia nel cammino di un artista che per i più è già difficile superare: il trovare dentro sé stessi il fattore chiave del proprio lavoro – non tanto dal punto di vista espressivo, che ad esempio nel caso di Bellomo è piuttosto elastico e libero, quanto piuttosto dentro le profondità dove si formano le linee di comportamento, le sensibilità per gli stimoli da raccogliere, in sostanza dove si trovano le porte segrete da aprire per accedere al proprio mondo.
I lavori che qui ci presenta – con le sue parole, come già abbiamo qui visto fare a Teresa Giannico, con la quale condivide la provenienza barese – incrociano in molti casi fotografia e video, utilizzando le forze di entrambi i mezzi in una chiave apparentemente semplice, ma di spessore e intensità rari, calati come sono nella vita quotidiana e nelle sue follie.

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Fabrizio Bellomo, Litoranea San Giorgio – Torre a mare, 2011

 

Bellomo affronta sempre la realtà con un atteggiamento che al primo tocco ci appare cinico e sprezzante, o comunque così ironico da metterci quasi a disagio. Poi, misteriosamente, pian piano ci accorgiamo che sotto quell’aspetto si muovono sentimenti profondi: di appartenenza, di affetto, di empatia.
Non è mai elegante citare se stessi, ma incollo lo stesso qui alcune frasi che ho rivolto di recente in privato a Fabrizio (del quale ho talvolta la possibilità di vedere in anteprima alcuni lavori) anche perché so che vi si è riconosciuto. Per inciso, si tratta di una importante produzione di un lungometraggio intitolato L’albero di trasmissione, sorta di surreale documentario su una famiglia di inventori sfasciacarrozze…

Fabrizio era un sacco di tempo che non vedevo una cosa così ipnotizzante.
È davvero tuo: bastardo e commovente, durissimo e affettuoso, tutto mescolato in un groviglio intelligente. Mi ha anche fatto tanto pensare a quanto la pazzia dei nostri padri ci viene trasmessa e a quanto poi noi la trasmettiamo ai nostri figli, in un flusso inarrestabile di follie che si propagano per migliaia di anni, nel tempo e nello spazio…
(però un treppiede nelle riprese fisse potevi anche usarlo! Forse essere professionali non fa artista?) 🙂

La fotografia entra nel lavoro di Bellomo per la sua ipotetica fissità – che però è sempre negata dal fatto di usare il mezzo sbagliato, o meglio nel modo sbagliato: una fotocamera usata in modalità video. So benissimo quanto questa sia ormai una prassi abituale e quanto alcuni apparecchi fotografici siano ormai usati quasi solo per le loro funzioni video, ma quello che Fabrizio Bellomo fa succedere è che l’apparecchio mantiene la sua essenza fotografica pur non scattando fotografie – la qual cosa è interessante.
La crudele empatia che anima i suoi lavori si esprime anche così, con un uso disturbato dello strumento, ossia senza dimenticarne mai le radici ma forzando il suo intervento, la sua presenza nel mondo. Un mondo tuttora convinto che una macchina fotografica serva ancora a fare fotografie e che dunque si mette in posa e aspetta il famoso istante decisivo, che semplicemente non c’è più.
Anche Bellomo in un certo senso è sempre dannatamente presente nei suoi lavori, lo sentiamo quasi respirare vicino all’ottica – anche nei lavori più strettamente fotografici, che comunque puntano ad allargarsi, a farsi giganteschi. Non è più fotografia, di quella che si appoggia sul tavolo o si appende al muro: è una cosa sempre in bilico verso quel qualcos’altro che ancora non esiste e che quelli come Fabrizio Bellomo stanno oggi cercando: raccogliendo, producendo, sperimentando, sbagliando, riprovando.
Gli stessi lavori, e le scarne parole di Bellomo che seguono, un po’ lettera e un po’ riflessione, dimostrano quanto questa ricerca abbia per forza di cose modalità ampie e curiose. Le risposte potrebbero nascondersi dove meno ce lo si aspetta, e dunque tocca muoversi a tutto campo – e a volte tocca anche invaderlo, il campo.

 

BELLOMO_Italia_forza_2005

Fabrizio Bellomo, Italia, Forza, 2005

Italia, Forza. 2005
Questa è un immagine che ho riscoperto solo alcuni anni dopo la sua realizzazione. Scattata in diapositiva nel 2005, ho iniziato a usarla solo a partire dal 2008/09. Ricordo che in un periodo in cui costruivo sempre dei mini-set “abbastanza naturali”, o comunque sempre giocando nel creare commistioni fra location e/o personaggi reali con il mio intervento, ritrovai quest’immagine mentre stavo facendo una carrellata di ricognizione nel mio archivio di diapositive. Fu un’epifania, niente di quello che avevo costruito in quel periodo era tanto equilibrato nei colori, nei contenuti e nella forma come questo carretto con cavallo bianco su sfondo nazionalpopolare. Mi sembrava, e mi sembra tuttora, un set neorealista, ma il mio intervento qui si limitò a scattare una fotografia, una delle poche occasioni in cui mi sono limitato a fare solo questo gesto. Fu un’epifania perché, andando a ritroso, credo che di li in poi ho ricercato una commistione maggiore fra realtà e finzione nella costruzione dei lavori, che siano immagini statiche o in movimento.

 

32 dicembre, 2011
Da questo lavoro si sono ramificate una serie di riflessioni riguardo l’immagine fissa e le immagini in movimento.
È un lavoro che nasce prima di tutto dalla macchina; erano in quel periodo da poco disponibili sul mercato le prime reflex che giravano anche in full HD – è stato possibile realizzare questo lavoro grazie a questa potenzialità della macchina e quindi grazie alla voglia di analizzare i comportamenti umani rispetto alla presa di coscienza di “divenir immagine”. Poi credo credo nasca anche dalla mia empatia per questi luoghi e personaggi che fanno parte dei miei ricordi di infanzia/adolescenza e del mio immaginario più intimo.

 

BELLOMO_ABBI_CURA_2012

Fabrizio Bellomo, Abbi cura della macchina su cui lavori è il tuo pane!, 2012

Abbi cura della macchina su cui lavori è il tuo pane!, 2012
Questo è un lavoro che tu conosci bene, lo hai “subìto” personalmente essendo in prima persona un abitante di Sesto San Giovanni (la Stalingrado d’Italia – mi fa sempre sorridere quest’appellativo), comune dove l’opera è rimasta installata per un paio d’anni. Era la prima volta che mi veniva commissionato qualcosa, nel caso specifico dal MuFoCo di Cinisello Balsamo.
Sono sempre più affascinato da questo connubio uomo – lavoro – macchina. Questa frase è un monito molto lucido su quello che siamo – tuttora, nell’era digitale la macchina è magari più gentile ma…
Ricordo con piacere un episodio legato a quell’installazione: ero in quel periodo solito girovagare sui social network e sul web alla ricerca di commenti, fotografie e critiche riguardanti questa grande installazione; trovai un utente che aveva commentato una fotografia dell’installazione scrivendo più o meno queste parole “stamattina ci sono passato davanti con la macchina, appena arrivato in ufficio ho pulito il mio PC e gli ho dato un bacino”.
All’epoca ti chiesi di fare un testo per il catalogo, mi sembrò totalmente azzeccata la mossa anche per il tuo passato operaio, la traslazione da ambiente operaio ad ambiente culturale – da industria fordista a industria culturale – è presente in tutta l’operazione legata a questo lavoro, dalla migrazione e traslazione di campo della targa alla migrazione di chi ha scritto il testo critico.
La targa trovata in una vecchia acciaieria abbandonata di Bari ha subìto un processo di cambio di proporzioni e di migrazione a Sesto San Giovanni nel carroponte dell’ex Breda Marelli (oggi luogo per concerti ed eventi) – migrazione uguale a quella che gli operai ex contadini hanno effettuato durante il novecento e processo simile a quello che molti operatori culturali effettuano anche oggi, da sud a nord,  per lavorare nelle industrie culturali.

Nota di Luca Andreoni: ho pensato di inserire il testo che a suo tempo scrissi per Fabrizio, fortemente autobiografico, nella pagina della mia biografia. Lo trovate qui, più o meno a metà pagina.

 

BELLOMO_persone

A cura di Fabrizio Bellomo, Le persone sono più vere se rappresentate, Postmedia Books 2014

Le persone sono più vere se rappresentate, 2014
È un libro edito da PostmediaBooks nato da una rassegna, a sua volta nata da certe mie cartelle disordinate e confuse che campeggiavano nel mio desktop.
Partendo da alcuni miei lavori, dalla serie relativa a 32 dicembre mi prese il capriccio di cercare cosa fosse stato fatto di simile o comunque in quella direzione anche da altri autori, artisti, registi pubblicitari ecc… Attraverso conversazioni con persone che stimo, materiali d’archivio, lavori di artisti e tante immagini sono andato alla ricerca delle metodologie, di cosa faccia si che alcuni lavori riescano a imprimere al loro interno una sorta di tensione con e verso la rappresentazione stessa.
Ragionare in modo più critico, riflessivo e teorico è stato un passaggio bello e importante per la mia ricerca. Sono metodologie che oggi porto con me anche nei lavori più operativi.

 

L’albero di trasmissione, 2014
È il mio primo film, è un lavoro a cui sono ancora troppo vicino per riuscire a parlarne con scioltezza. Mi fa piacere però accennare che da questo film sta nascendo, molto lentamente, anche un piccolo libro sul quartiere barese di San Cataldo, quartiere peninsulare che ospita il faro della città, dove il film è interamente ambientato.
Il volumetto sarà edito dalla casa editrice romana Linaria.
Uno dei personaggi più ingombranti del film sono alcune fotografie.

 

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Quanta resistenza fai per non esserlo

Il giorno dopo l’intervento di Vittore Fossati del quale ho pubblicato ieri un suo testo ho ricevuto questa splendida email da Francesco Pedrini, collega in Accademia a Bergamo che, oltre che bravo artista, è persona gentile e intelligente. Ho pensato subito che sarebbe stato bello pubblicarla a ruota del testo di Vittore e Francesco ha acconsentito. Credo che in questo testo vi sia tutta l’emozione e la profondità che sono fluttuate nell’aria quella sera.

Vittore Fossati Oviglio 1981

Vittore Fossati, Oviglio 1981

 

Da: francesco pedrini <info@francescopedrini.me>
Data: 08 maggio 2015 11.16.01 GMT+02.00
A: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Oggetto: Vittore conferenza

Ciao Luca, scrivo per ringraziarti.
Sono anni che ascolto interventi e conferenze ma ieri è stata proprio una esperienza di profondità.
Vittore tra il serio e il faceto, ha punto e punzecchiato, ma direi pure travolto i miei stati d’animo nei confronti dell’essere artista. Ho subito una serie di leve emozionali spiazzanti.
Ti prego di non credere che io sia sprovveduto, o che sia una fascinazione da “groupie”, ma sono abituato a portare al punto critico ogni discorso e con Vittore ne ho fatto forte esercizio.
Per assurdo non è stato un incontro sulla fotografia ma sul processo mentale che ti sfinisce prima di scattare la fotografia. Chiunque ci abbia giocato la vita questo lo sa. Anche il ritmo della conferenza è stato questo, centinaia di sollecitazioni stupende, vaghe, poi precise e poi click, lo scatto. Sembrava di essere nella sua testa durante un progetto artistico. Ebbene sì, la fotografia è cosa mentale quando hai gli strumenti…
Vittore ieri si è esposto enormemente, si è presentato armato di mille dispositivi teorici ma li ha deposti e si è messo a nudo, coscientemente e forse tatticamente, comunque sia ha vinto lui.
La fotografia non è questo? Ti armi di cose, strumenti, pensieri, teorie, suggestioni filosofiche e storiche; una specie di “noise” interiore e poi ti ritrovi con “solo un occhio” dentro un mirino e il mondo fuori (window) e click un istante.
Se la filosofia come l’arte ha il compito di agitare ambiti ieri è accaduto.
Come non emozionarsi quando Vittore dice che fa fotografie per riconoscenza a Ghirri, il quale una sera negli anni settanta lo ha chiamato dalla lattaia per invitarlo ad una mostra e lui non aveva nemmeno finito il suo primo rullino a colori. Chissà poi se la lattaia aveva le tette grosse come la tabaccaia di Fellini. Ma comunque, trovare un artista che si fa canale per passare informazioni, non mettendosi mai in prima persona persino quando mostra le proprie fotografie è disincanto, forse tecnica comunicativa, ma in realtà è semplicemente amore disinteressato per ciò che fai. Cosa dimostra che sei veramente un artista? Quanta resistenza fai per non esserlo.
Vittore è un perito aeronautico, difatti fotografa arcobaleni, Ghirri era un geometra e infatti fotografava gli Atlanti. Tu Luca sei il ghiaccio, si vede e si sente, ma il ghiaccio è acqua, conduttore per eccellenza.
Avrei voluto fargli mille domande ma odio chi fa domande alle conferenze, perché ad un vulcano che erutta non si fanno domande, ci si siede, si guarda, si ascolta e si vacilla possibilmente senza troppi click…

ciao, un forte abbraccio

francesco pedrini

 

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Vittore Fossati – L’otto rovesciato

Ho ricevuto questo testo da Vittore Fossati pochi giorni fa, dopo il suo intervento a Bergamo negli incontri GAMeC sui rapporti tra fotografia e arte. Fossati nell’incontro è stato assolutamente generoso, perché ha incrociato una forte componente analitica, saggistica, con lo svelamento profondo ed emozionante dei propri percorsi mentali mentre realizza le sue fotografie. Non mi so spiegare del tutto come gli sia stato possibile tenere così bene insieme questi due aspetti così diversi, ma credo che questo testo in qualche modo lo possa fare intuire.
Il testo che potete leggere qui sotto è la revisione degli appunti di un discorso da lui tenuto in occasione della giornata di studio Come pensare per immagini? Luigi Ghirri e la fotografia, svoltosi alla British School at Rome il 9 ottobre 2013 – ma è anche vicino, per intensità e contenuti, alla lezione che ha appena tenuto a Bergamo.

Sono particolarmente orgoglioso di proporvelo in questo blog, per varie ragioni: la prima è che è molto raro che un autore ci apra, diciamo così, le porte sui suoi meccanismi più profondi e sui pensieri che intervengono mentre lavora. La seconda è che Vittore Fossati è una figura tanto grande quanto schiva nel panorama della fotografia italiana. Tra me e me lo definisco un minimizzatore: del suo ruolo e del suo lavoro – mentre anche solo questo testo ci dimostra perfettamente il contrario. La terza ragione sta nella rarità della sua presenza nel web, così come della rarità in generale di suoi testi (cosa quest’ultima che lo accumuna purtroppo a molti altri). Ve ne sarebbero altre, di ragioni: ma mi fermo qui e vi lascio a questo eccezionale contributo.

 

Vittore Fossati

 

L’otto rovesciato
Appunti per un’idea di infinito nell’opera e nella vita di Luigi e Paola Ghirri

La parola infinito compare molte volte come concetto, titolo, evocazione poetica, a volte anche nel lavoro quotidiano di Luigi e Paola Ghirri.
Un’opera di Ghirri s’intitola Infinito ma poi, ad esempio, avevano scelto il nome di infinito per il loro studio di grafica e fotografia negli anni in cui hanno abitato a Formigine.
Tra l’altro, i simboli della messa a fuoco usati come fregio per il biglietto da visita sono stati riprodotti anche nel libro, che rende loro omaggio: Fin dove può arrivare l’infinito che deve il titolo a quello del testo di Giorgio Messori – scritto del 1992 -, originariamente pubblicato nel primo catalogo realizzato dopo la morte di Ghirri e cioè Vista con camera, curato da Paola e da Ennery Taramelli la quale, peraltro, ha intitolato un suo saggio Mondi infiniti di Luigi Ghirri.
Il mio contributo inizia dunque così e continuerà per una decina di minuti fra ricordi e divagazioni.

L’otto rovesciato
Paola mi aveva raccontato che durante le esequie di Luigi nella chiesetta di Roncocesi lei era seduta in un banco che portava un numero, l’otto, scritto su una targhetta. Durante la cerimonia questa targhetta, alla quale evidentemente già mancava uno dei due chiodini che la fissavano, era ruotata di 90° finendo per indicare così un otto rovesciato, il simbolo dell’infinito.
Paola credeva molto a questi accadimenti, al manifestarsi di queste coincidenze.
Comunque, fatto sta che Paola è mancata il giorno 8 e la sorella, interpretando quello che forse sarebbe stato un suo desiderio, volle che il funerale avvenisse l’11 novembre e quindi l’11/11/2011.
11-11-11. Un numero palindromo che, appunto, può essere letto in un senso o nell’altro. Né capo né coda, né inizio né fine che, proprio come il nastro di Moebius, può essere letto o, per meglio dire percorso all’infinito.
Come si ricorderà, nel luglio 2011 un incendio sviluppatosi nel sottotetto aveva devastato la casa di Roncocesi. Paola si era trasferita in un’altra abitazione e poi, dopo circa quattro mesi, moriva.

Dicembre 2011
Daniele De Lonti, Gianni Leone, io e Beppe Sebaste, temendo una radicale trasformazione (poi per fortuna non è stato così), siamo entrati nella casa di cui eravamo stati tante volte ospiti per raccontare il nostro commosso legame con gli oggetti e le memorie di un luogo, l’ultima casa abitata da  Luigi e Paola.
Muratori e carpentieri avevano iniziato il lavoro di ripristino. Mobili, libri, dischi in gran parte ammassati nelle stanze inferiori. Alle pareti umidità e muffa provocata dall’acqua per lo spegnimento dell’incendio. Freddo. Buio. I ponteggi all’esterno impedivano l’apertura degli scuri. Molte foto sono state fatte con l’ausilio di una lampada che ci portavamo dietro da una stanza all’altra, da un piano all’altro.
Ovunque, come si può immaginare, disordine e polvere. Polvere. Una volta, alla radio, ho sentito il filologo Giovanni Semerano che diceva che la parola infinito deriva da quella accadica che significa polvere. Adesso ne ero ancora più convinto.
Inizio a fotografare. Sono nello studio al piano terra. Prendo una piccola scatola rossa, che spunta da una pila di libri. La poso sull’impolverato tavolo color verde penicillina, al quale Paola era solita sedersi per lavorare all’impaginazione dei libri. Disfo il nodo di stoffa nera che la teneva chiusa. Il nastro cadendo sul tavolo forma, con la sua ombra, la figura dell’otto. Paola, che compare nella prima foto della scatola, sembra guardarlo. Faccio questa fotografia tra la sorpresa e il turbamento.

Vittore Fossati, Nastro

Mi sposto nel corridoio. Sullo scaffale vedo un altro otto. Questa volta si tratta di un numero dipinto su una piastrella di ceramica, quelle dei numeri civici. Accanto trovo una cartolina che, muovendola, e a seconda di come la si tiene inclinata, mostra tre fasi di un’eclissi di sole. La fotografo nelle tre posizioni e più che un’eclissi adesso mi sembra il triste racconto di uno spegnimento.

Vittore Fossati, eclissi 1

Vittore Fossati, eclissi 2

Vittore Fossati, eclissi 3

 

L’infinito
La parola fa venire subito in mente il canto più noto di Leopardi. In questo canto l’infinito viene detto tramite continue comparazioni tra il vicino e il lontano, tra ciò che ci è prossimo, che appartiene al finito, alla finitudine della condizione umana e ciò che è distante, che sta all’infinito, e che appartiene all’orizzonte dell’incommensurabile.
Dunque, Il questo e il quello:

[…] a questa siepe…
… interminati spazi di là da quella
E come il vento odo stormire
Tra queste piante
Io quello infinito silenzio
A questa voce vo comparando…

Ora mostro la copertina di un libro di racconti di Antonio Prete (pubblicato nel 2000) il quale, tra l’altro, si è anche molto occupato di Leopardi, scrivendo bellissimi saggi.

GHIRRI COPERTINA

Il racconto che apre il volume è dedicato alla figura di Giuseppe da Copertino, un frate vissuto nel ‘600, famoso per i suoi “voli”. Le cronache raccontano che durante l’estasi si sollevasse da terra. E insomma, per farla breve, per le sue virtù e devozione venne ammesso senza esami al sacerdozio.
Ma chissà perché proprio questa foto per questa copertina.
L’avevo chiesto a Paola e mi rispose che era del tutto casuale, si era trattato, come in molti casi, di una scelta redazionale.
Copertina / Copertino (un gioco di parole che sarebbe piaciuto a Ghirri)
Paola, a proposito di Copertino, mi disse che quando, durante un viaggio in Puglia Luigi si imbattè nel nome di questa località e lesse anche l’indicazione di un santuario dedicato a questo san Giuseppe esclamò: «ma allora è vero… allora esiste per davvero» e raccontò a Paola che sua madre, quando Luigi frequentava le elementari, gli aveva messo in un quaderno un’immaginetta di questo santo perché, almeno ancora in quegli anni, era credenza che san Giuseppe da Copertino proteggesse i bambini che non andavano troppo bene a scuola. Paola aveva detto «quelli un po’ asini».
Dunque, il racconto di Prete sulla visionarietà di questo mistico s’intitola Portenti di fra Giuseppe da Copertino ed inizia così:
«Giuseppe Boccaperta lo chiamavano, perché era sempre incantato, sempre con la bocca spalancata per la meraviglia, che cosa vedi? gli chiedevano, che cosa vedi, Giuseppe?…»
Noi invece adesso potremmo chiederci, a proposito di questa fotografia, cosa vedeva Luigi.
La foto mostra un gioco per bambini, un’altalena come tante su una spiaggia della riviera adriatica. È una foto molto semplice, apparentemente forse anche banale. Però Luigi qualcosa aveva intravisto e curando la distanza di ripresa fa in modo che gli anelli che pendono dal braccio sinistro della struttura sfiorino, indichino, la prossimità del finito, la linea che separa la terra dal mare, mentre quelli che scendono dall’altro braccio, tocchino la linea dell’orizzonte che separa il mare dal cielo. Ghirri sostituisce la siepe leopardiana con un’altalena che appunto, ci suggerisce – visivamente – l’altalenanza tra il questo e il quello, tra ciò che sembra poter appartenere al vicino, alla nostra possibilità di conoscenza sensibile e ciò che invece rimarrà sempre lontano – allontanato all’infinito – su un vago orizzonte.

Ancora una fotografia di Ghirri (Trani, 1982)

Luigi Ghirri Trani 1982

Peter Handke nel suo libro Nei colori del giorno, dedicato all’esplorazione di uno dei luoghi della pittura di Cézanne, la montagna Sainte-Victoire, racconta che, a un certo punto, scendendo da un sentiero, lancia una mela per aria, la riagguanta e dice di aver fatto questo per legarsi al paesaggio.
La foto mostra un’anfora collocata come decoro sulla balaustra di un tratto del lungomare di Trani. Al centro della foto non c’è l’anfora ma la linea mediana tra l’anfora e l’ombra dei rami di un albero; ombra analoga per forma a quella dell’anfora. Ghirri si lega al paesaggio in questo modo, unisce il questo al quello, adottando inoltre un punto di ripresa che gli permette di far collimare, di sovrapporre la linea obliqua del profilo della nuvola con quella che separa – per il diverso colore – la superficie dell’anfora: è una sorta di trompe-l’oeil che attira  lo sguardo verso una lontananza infinita.
Molte foto di Ghirri ci mostrano quello che c’è, quello che si vede più qualcos’altro.
Edward Weston, in una pagina del suo diario annotava: «ho fatto la fotografia di un tronco di una palma: è la fotografia di un tronco d’albero più qualcos’altro. Non so cosa darei perché qualcuno mi dicesse cos’è questo qualcos’altro…».

Novembre 2010
Io e Paola siamo stati a Bari per la presentazione del libro di Gianni Leone e stiamo tornando a Bologna con l’aereo.
Le nuvole sono sotto di noi. Adesso per guardare il cielo, le nuvole, dobbiamo guardare in basso e non in alto. Il punto di vista si è rovesciato.
Mi faccio dare i suoi occhiali, li appoggio al finestrino e faccio una foto.

Vittore Fossati, Occhiali Paola

Gliela mostro nel display e le chiedo: «chissà cosa può unire la parola otto alla parola ottica
Paola guarda la foto. Sorride.

 

 

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