Nervi come archi

Exposed Project è la sigla di un ampio collettivo/network di artisti legati dall’interesse per la fotografia e per il video, nato nel 2012 come – cito dal loro Manifesto – “piattaforma di ricerca sulla trasformazione urbana a Milano e sulle le sue connessioni con Expo2015”, che sta iniziando da qualche tempo anche ad allargare il proprio tiro, portando la propria esperienza in altri contesti (si veda ad esempio la recente collaborazione col festival Cortona On The Move). Prima di proseguire nella lettura, consiglio di andare anche a dare un’occhiata al loro sito, al loro interessante Manifesto e all’ampia lista dei nomi delle persone che in vario modo vi hanno collaborato – lo consiglio perché già da questi link ci si può ben rendere conto della serietà, della professionalità e della dedizione che questo progetto ha raccolto intorno a sé. Va detto subito anche che questo è un progetto nato dal basso, del tutto autocommissionato e autofinanziato – il che ricade nelle classiche modalità dei collettivi di giovani e nelle altrettanto classiche modalità di indifferenza da parte delle istituzioni, anche di quelle preposte ad aiutare questo tipo di operazioni.

Da pochi giorni una bella mostra ne illustra i percorsi e gli esiti in un luogo prestigioso di Milano, lo Spazio Forma Meravigli, con un programma fittissimo di eventi che va ben oltre la festa d’inaugurazione. Tuttavia questo post non nasce per parlare della mostra. Da tempo volevo raccontare qui nel blog di questa esperienza – che per serietà e durata è senz’altro rara nel panorama nazionale – sia perché conosco, e stimo molto, diverse delle persone che vi sono coinvolte, sia per avere l’occasione di porre lo sguardo dietro le quinte del funzionamento di una operazione piuttosto complessa, del tentativo di gestione paritaria tra gli attori coinvolti, senza personalismi curatoriali e così via. Trovo che questo sia particolarmente interessante, anche perché quella della formazione di gruppi di lavoro è una pratica piuttosto diffusa tra i giovani, spesso generata dalla necessità di dialogo e da forme più efficienti di autosostentamento (sia economico che motivazionale, direi).

Avevo già chiesto a Exposed un contributo che riguardasse, più che la descrizione del progetto o dei lavori che contiene, una sorta di autoanalisi riguardo alle dinamiche interne, alle difficoltà di discussione, all’inevitabile diverso grado di coinvolgimento che i vari partecipanti avessero dato fino a oggi al progetto. Questo proprio per mettere a disposizione degli esempi delle modalità di discussione e di gestione dei problemi che un tale tipo di approccio richiede.
Bene, proprio in mostra a Milano sono stato felice di vedere che una piccola parete era stata ricoperta di fogli A4 contenenti le stampate di frammenti di discussioni interne via email. Un flusso frammentario – lasciatemi dire: quasi eracliteo – ma a mio parere affascinante, insomma un testo prezioso, dal quale ricavare indicazioni importanti. Exposed mi ha permesso di metterne qui a disposizione alcune parti che ho selezionato, e vi rimando alla visita in mostra per una eventuale lettura completa.
Concludo dicendo che credo che la bellezza e la forza di questo progetto risiedano da un lato nella capacità di averlo portato avanti per lungo tempo e anzi di averlo fatto crescere nel tempo (cosa rara nelle naturali attitudini giovanili) e dall’altro nell’aver coltivato il proprio lavoro con coscienza critica e valido impegno civile senza abbassarsi ad antagonismi che pur sarebbero stati facili, visto il tema. Credo sia ora di smetterla di chiamare “giovani” delle persone così adulte da comportarsi meglio dei loro padri.

On the spot - Giuseppe Fanizza, critical bike no expo,  2015

On the spot – Giuseppe Fanizza, critical bike no expo, 2015

 

Tutto sommato la cosa non è poi così male… Il problema sostanziale è che siamo alle solite. Cioè innanzitutto noi non siamo (almeno lo credo io) attivisti o un collettivo di artisti che fa un lavoro con un determinato approccio, quindi il bello sarebbe stato proprio diversificare con il nostro approccio più da laboratorio-studio. C’è un’altra cosa che poi è collegata… Sembra che tutto quello che si faccia da loro (e direte che scoperta…) debba adattarsi al loro modo di fare, a prescindere da cosa si condivide o meno del loro fare… Ma proprio a prescindere io non riesco a concepire questo modo di lavorare che, passatemelo… è decisamente piramidale.

E anzi sono d’accordo. Infatti tutto quello che ho scritto (magari ho espresso male) per me non configura NESSUNA forma di collaborazione. La decisione è se vogliamo tenere o no una voce in un tavolo di discussione in cui tutti mantengono comunque le loro posizioni, mi auspico distanti, e in cui ci si guadagni in termini di arricchimento del confronto.
Inoltre non vi nascondo, a rischio di sembrare malato, che secondo me è bene tenere sotto controllo cosa viene detto in queste sedi.
A me poi interessano davvero le dinamiche di opposizione dei movimenti.  Cioè mi piace guardare come funzionano.
Il coinvolgimento cmq è ancora da decidere.

Ci dicevamo che ci siamo stancati di raccogliere i lavori già fatti per farne le gallery su internet. Lo dimostra il fatto che l’archivio è fermo, che siamo tutti più impegnati nella progettazione, che ci piace di più che fare i blogger.
Dicevamo perciò di abbandonare la parola “archivio”.

Andrea Kunkl, Incendio grigio, 2012-2015

Andrea Kunkl, Incendio grigio, 2012-2015

Cari tutti spero che il mio tono non sia stato letto come minaccioso. Soprattutto da chi di persona non mi conosce o non mi conosce bene.
Il ruolo mio qua è quello di rompervi il cazzo fino alla morte. Ci tengo molto a questo progetto e sono molto entusiasta di come vanno le cose. Per come sono fatto io purtroppo non mi accontento mai, e questo è solo l’inizio perciò attendetevi di molto peggio.
Il trascorso anarchico mi ha lasciato questo tremendo vizio di parlare con un tono acceso. Credo fortemente che lo scontro sia una parte molto importante e detonatoria della discussione collettiva. Soprattutto il dirsi in faccia, senza paura, quello che si pensa. Perciò nervi come archi e siete liberi di odiarmi, l’importante è che continuate a spaccare e a tenere questo tiro. Le cose da fare sono tante e io nonostante la lontananza mi sbatto su questi punti detti sopra.

Trasferiamo qui una discussione sui soldi che sta disseminata in mails su altri argomenti, telefonate e assemblee in cui purtroppo non ci saranno mai tutti quanti.
Siamo tutti d’accordo che bisogna cominciare a pensare a una modalità per compensare chi lavora per Exposed.
Quello che c’è da fare è capire quale è questa modalità migliore.
Perciò magari scriviamo qui le nostre proposte, che però siano proposte non di massima o sul atteggiamento che dovremmo avere, ma proposte specifiche su come la macchina soldi deve funzionare. Cioè scriviamo già qui il criterio di ripartizione, le soglie e le percentuali indicative.
Ad esempio proposta mia:
– Come regola generale iniziamo questo nuovo corso sui progetti e le entrate da qui in avanti. Terrei fuori gli episodi passati anche perché si tratta di entrate irrisorie, o rimborsi spese.
– Entrate fino a 500 €: vanno nel fondo cassa di Exposed che sarà utilizzato per le spese di produzione di eventi e altre cose simili (dove per spese si intendono anche i compensi per prestazioni dovuti ad esterni Exposed, qualora queste prestazioni siano relative alla gestione generale e non ai singoli progetti).
– Entrate superiori ai 500:
Dal totale si stornano prima le eventuali spese relative alla produzione del progetto da cui i soldi arrivano (inclusi i compensi agli esterni ad Exposed che stanno lavorando a un determinato progetto).
Da quello che rimane il 20-40 % va in fondo cassa di Exposed. (Dove per spese si intende anche il pagamento delle prestazioni di lavoro prestate da persone esterne ad Exposed per quel particolare progetto)
Il 60-80 % va ripartito fra i responsabili del progetto e lì ci sarà da fare un’altra commisurazione interna.

Io ci vedrei al massimo un “on the spot”. Non appena ci siamo tutti, ne riparliamo e secondo me è davvero tempo di “osare” e cercare nuovi progetti, in nuove direzioni. Per me è diventata un’esigenza.
Ma ovviamente dobbiamo confrontarci.
Ecco, mi permetto di “dissentire”: questo non è proprio un lavoro “documentario”. La fotografia documentaria non prende spunto da alcun fatto preciso e adotta un preciso punto di vista e alcune “regole”. È proprio questo che mi turba: questi reportage fatti male, poco interessanti, a cui si finge di dare “rigore” e un registro cromatico. Non basta.

Sinfonie Urbane - The Cool Couple e Alessandro Sambini, You are Hear, 2014

Sinfonie Urbane – The Cool Couple e Alessandro Sambini, You are Hear, 2014

Potreste togliermi dalla newsletter?
Potreste anche evitare di usare idee altrui per sviluppare progetti?
Grazie

Vorrei aggiungermi al coro dei miei colleghi perché il tuo email mi ha davvero stupito.
Io parto dal presupposto che se una persona si sente “attaccata” o sente attaccato il proprio lavoro, fa benissimo a comunicarlo e a “difenderlo”. Ma buona regola della comunicazione è addurre motivazioni e rendere esplicito l’oggetto della discussione se l’interlocutore non lo conosce.
Non capisco a cosa ti riferisci. Io non ti conosco, non ho mai sentito parlare di te e non so quello che fai. Passo la mia giornata a lavorare, e a guadagnarmi la possibilità di fare quello in cui credo / crediamo e che mi piace. Credo di poter affermare con convinzione di avere una certa credibilità e integrità nel lavoro.
E, non vorrei deluderti, ma non esistono soggetti nuovi, soprattutto in fotografia, ma solo nuovi punti di vista.
Perciò se hai qualcosa da dire, vuoi proporci un tuo lavoro, hai critiche o semplicemente vuoi esprimere un malumore, puoi passare a trovarci o scriverci. Ma ti prego di farlo, in maniera professionale, spiegando a cosa ti riferisci.

Vi scrivo a mente fredda.
Ieri ho avuto una reazione impulsiva e che non mi si addice.
Volevo scusarmi con voi per i modi e per i toni della mail che avete ricevuto.
Ad essere onesto non avete rubato nessuna idea, e so che non lo farete; vi ho seguito fin dall’inizio su facebook e letto le newsletter, ma purtroppo non sono mai riuscito a venire agli incontri.
Razionalmente credo sia uno sfogo derivato alla mia situazione lavorativa.
Mi trovo bloccato a livello professionale come fotografo per n motivi, e rapportarmi con clienti che trattano questo mestiere come fosse un gioco senza valori e etica mi porta ad avere un livello di stress e tensione che non dovrebbe esserci. Purtroppo ieri in uno di questi momenti ho scritto per istinto quelle frasi, che onestamente non ritengo vere.
Non c’è un vero riferimento, anche perché come si fa a pensare che qualcuno rubi delle idee su un tema e un’area osservata da un intero paese? Davvero, ritengo senza senso quella frase, e mi sento anche un po’ stupido.
Le mie scuse sono oneste e sincere, e non c’è nessun sarcasmo in quello che scrivo.

Serena Porrati, Contemporary Hills, 2010 - 2012

Serena Porrati, Contemporary Hills, 2010 – 2012

Ciao ragazzi riguardo la reazione secondo me bisogna spingere molto sulla questione che è aperta senza bloccarci troppo sugli schemi di appartenenza e di ruoli che oramai sono passati, io e sono convinto che non abbiamo nessuna necessità di scrivere il nome sopra agli altri nonostante sia un progetto che abbiamo creato, ma definire dei ruoli ad alcuni implicherebbe escludere altri. Quello che mi chiedo, senza polemica ma con riflessione, è come facciamo a liberarci da questi valori fittizi di inclusione ed esclusione? Ad esempio perché in questa mail c’e la persona x e non la persona y? Perché non proviamo ad andare oltre? Non abbiamo nulla a perdere e il valore forte è la collettività e il mettere in secondo piano il proprio io e la propria ambizione personale per qualcosa di più grosso, altrimenti saremmo come tutti gli altri, solo chiacchiere e distintivo… Guardate i wu ming, chi sa chi c’è dietro ai wu ming? Questa cmq è solo una riflessione che vorrebbe promuovere un dibattito.

Purtroppo (ma noi non l’abbiamo mai richiesto) non tutti partecipano a Exposed con una identificazione totale nel progetto, ma sono interessati semplicemente a inserire il loro progetto in un contesto tematico superiore o ancora, la vedono come una vetrina per il loro progetto. E noi non rigettiamo neanche questo atteggiamento in nome della sacralità del CONTENUTO, un’altra cosa che dovrebbe salvarci. E soprattutto non c’è, né è richiesta una identificazione nel nome come per wu ming, che infatti, altro che aperto, è un gruppo tanto chiuso da essere segreto.

Riguardo i ruoli troviamo una sintesi o qualcosa che non ce la si canti troppo da soli (spero capiate quello che intendo) redazione tecnica etc.etc.
Benissimo. Quello che secondo me è importante è che sicché non abbiamo nulla da perdere vorrei tentare di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto, soprattutto sulla questione identitaria.
Sicché sono lontano saltuariamente vi romperò il cazzo con questioni filosofiche, metafisiche e di genere (io voglio andare oltre anche a questo). Cercando di creare un dibattito, anche scontri, perché io penso sia la base di Exposed.
Non è che ci dobbiamo stare tutti simpatici o andare tutti in vacanza insieme, non siamo un gruppo di amici (non solo) ma un gruppo di gente che lavora su di un tema.  È invece importante avere elementi che abbiano il coraggio di esporsi e di sbagliare.
Essendo una collettività lo scontro sarebbe fondamentale, perché dal dibattito acceso nascono le idee migliori (questo è un mio pensiero personale).
Sarà compito della redazione tecnica far si che le personalità più forti non sotterrino quelle più timide.

Secondo me non si può affidare a priori (nel senso che è molto difficile e quando ci abbiamo provato non abbiamo avuto successo) a una persona un determinato compito. Perché sarebbe come commissionare qualcosa, ma noi non abbiamo soldi per commissionare niente a nessuno.
Quindi le robe che uno decide di fare all’interno di Exposed è più facile che si stabiliscano nello svilupparsi del lavoro.

Fabrizio Vatieri, Baranza', VIdeo Still, 2015

Fabrizio Vatieri, Baranza’, VIdeo Still, 2015

Il progetto nasce in un modo, si evolve in un altro. I prossimi hanno e avranno NATURA E SVILUPPO diversi. Anche perché gli obiettivi che noi abbiamo sono diversi. O vi siete dimenticati tutte le volte che ci chiedevano “CHE FATE” e noi rispondevamo: FACCIAMO COSI ORA MA NON SAPPIAMO DOVE ANDREMO.
Perciò, se iniziamo a mettere capofila, collaborazioni e supporti mi chiedo in quale categoria debba stare IL NOME DI OGNUNO DI NOI per un progetto IDEATO, CURATO, AMMINISTRATO da OGNUNO DI NOI. Chiaramente in maniera diversa, perché ognuno ha dato il suo in base a competenze, necessità, tempo – come abbiamo sempre detto.

Io sono super d’accordo che vengano specificati dei nomi.
Mi pare stra-giusto che un progetto venga identificato come “a cura di” (poi si vede di volta in volta insomma). Per quanto mi riguarda io penso che il mio nome sia comunque presente, ed è scritto dentro la parola “Exposed” (che, in questo caso ha a che vedere con le due tre mail che ho mandato pure io, con l’aiuto nel selezionare i partecipanti, nell’allestimento della prima serata, eccetera, quindi non con cose specifiche e con sbattimenti propri e sul lungo periodo).
Quando leggerò “un progetto di Exposed” e magari non l’avrò seguito direttamente, sarò contenta, perché comunque sono sicura che la mia opinione a riguardo, degli spunti, dei suggerimenti saranno comunque ascoltati, perché faccio parte del collettivo (e viceversa quando parlerò di Exposed potrò dire “Stiamo facendo”).
Poi, secondo me le tre possibilità non sono state “date”, ma proposte ed accolte.

Dobbiamo preservare l’aspetto dell’auto-formazione e quindi che Exposed (non fraintendete quanto segue) debba essere anche un po’ un passatempo, un piacere (NO?), per me la ricerca lo è ancora. E quindi a fronte di questo, laddove non esistono i presupposti ma bisogna un attimo crearli. Va benissimo se ci prendiamo un attimo di tempo in più per capire come catalizzare la questione del cibo. O comunque per il momento non avere una scadenza in generale perché comunque non ce lo possiamo permettere…

Giulia Ticozzi, Palazzo Marino, corridoio, 2013

Giulia Ticozzi, Palazzo Marino, corridoio, 2013

Thanks for writing.
Unfortunately we can not provide for your residency in Milan.
The accommodation, both during the workshop and the production time, has to be sustained by the artists.

Il rischio grosso in cui dobbiamo evitare di cadere è il fatto (non so se voluto o no) che con questa azione cercano un poco anche di metterci uno contro l’altro. Sanno bene che ci siamo divisi compiti, responsabilità e quindi onori dei vari progetti. Noi non siamo gli ultimi arrivati e il nostro lavoro ha un valore effettivo.
Noi si cade in piedi e non abbiamo bisogno di niente e di nessuno.
Qua o si fa la rivoluzione o si muore, senza se e senza ma.

Io senza una retribuzione non mi sento più di lavorare.

 

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I personaggi più ingombranti sono alcune fotografie

Diciamolo subito: Fabrizio Bellomo è stato, qualche anno fa, nel corso che condivido con Francesco Zanot presso il Master in Photography and Visual Design NABA/FORMA uno degli studenti più indisponenti e provocatori, fastidiosi, che abbia mai avuto. Ma i suoi lavori sono sempre stati tra i più brillanti e intelligenti. Credo che ancora oggi sia da questa miscela esplosiva che i suoi lavori traggano la fascinazione che si meritano.

Fabrizio Bellomo ha oggi già raggiunto e superato quella prima soglia nel cammino di un artista che per i più è già difficile superare: il trovare dentro sé stessi il fattore chiave del proprio lavoro – non tanto dal punto di vista espressivo, che ad esempio nel caso di Bellomo è piuttosto elastico e libero, quanto piuttosto dentro le profondità dove si formano le linee di comportamento, le sensibilità per gli stimoli da raccogliere, in sostanza dove si trovano le porte segrete da aprire per accedere al proprio mondo.
I lavori che qui ci presenta – con le sue parole, come già abbiamo qui visto fare a Teresa Giannico, con la quale condivide la provenienza barese – incrociano in molti casi fotografia e video, utilizzando le forze di entrambi i mezzi in una chiave apparentemente semplice, ma di spessore e intensità rari, calati come sono nella vita quotidiana e nelle sue follie.

BELLOMO_litoranea_2011

Fabrizio Bellomo, Litoranea San Giorgio – Torre a mare, 2011

 

Bellomo affronta sempre la realtà con un atteggiamento che al primo tocco ci appare cinico e sprezzante, o comunque così ironico da metterci quasi a disagio. Poi, misteriosamente, pian piano ci accorgiamo che sotto quell’aspetto si muovono sentimenti profondi: di appartenenza, di affetto, di empatia.
Non è mai elegante citare se stessi, ma incollo lo stesso qui alcune frasi che ho rivolto di recente in privato a Fabrizio (del quale ho talvolta la possibilità di vedere in anteprima alcuni lavori) anche perché so che vi si è riconosciuto. Per inciso, si tratta di una importante produzione di un lungometraggio intitolato L’albero di trasmissione, sorta di surreale documentario su una famiglia di inventori sfasciacarrozze…

Fabrizio era un sacco di tempo che non vedevo una cosa così ipnotizzante.
È davvero tuo: bastardo e commovente, durissimo e affettuoso, tutto mescolato in un groviglio intelligente. Mi ha anche fatto tanto pensare a quanto la pazzia dei nostri padri ci viene trasmessa e a quanto poi noi la trasmettiamo ai nostri figli, in un flusso inarrestabile di follie che si propagano per migliaia di anni, nel tempo e nello spazio…
(però un treppiede nelle riprese fisse potevi anche usarlo! Forse essere professionali non fa artista?) 🙂

La fotografia entra nel lavoro di Bellomo per la sua ipotetica fissità – che però è sempre negata dal fatto di usare il mezzo sbagliato, o meglio nel modo sbagliato: una fotocamera usata in modalità video. So benissimo quanto questa sia ormai una prassi abituale e quanto alcuni apparecchi fotografici siano ormai usati quasi solo per le loro funzioni video, ma quello che Fabrizio Bellomo fa succedere è che l’apparecchio mantiene la sua essenza fotografica pur non scattando fotografie – la qual cosa è interessante.
La crudele empatia che anima i suoi lavori si esprime anche così, con un uso disturbato dello strumento, ossia senza dimenticarne mai le radici ma forzando il suo intervento, la sua presenza nel mondo. Un mondo tuttora convinto che una macchina fotografica serva ancora a fare fotografie e che dunque si mette in posa e aspetta il famoso istante decisivo, che semplicemente non c’è più.
Anche Bellomo in un certo senso è sempre dannatamente presente nei suoi lavori, lo sentiamo quasi respirare vicino all’ottica – anche nei lavori più strettamente fotografici, che comunque puntano ad allargarsi, a farsi giganteschi. Non è più fotografia, di quella che si appoggia sul tavolo o si appende al muro: è una cosa sempre in bilico verso quel qualcos’altro che ancora non esiste e che quelli come Fabrizio Bellomo stanno oggi cercando: raccogliendo, producendo, sperimentando, sbagliando, riprovando.
Gli stessi lavori, e le scarne parole di Bellomo che seguono, un po’ lettera e un po’ riflessione, dimostrano quanto questa ricerca abbia per forza di cose modalità ampie e curiose. Le risposte potrebbero nascondersi dove meno ce lo si aspetta, e dunque tocca muoversi a tutto campo – e a volte tocca anche invaderlo, il campo.

 

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Fabrizio Bellomo, Italia, Forza, 2005

Italia, Forza. 2005
Questa è un immagine che ho riscoperto solo alcuni anni dopo la sua realizzazione. Scattata in diapositiva nel 2005, ho iniziato a usarla solo a partire dal 2008/09. Ricordo che in un periodo in cui costruivo sempre dei mini-set “abbastanza naturali”, o comunque sempre giocando nel creare commistioni fra location e/o personaggi reali con il mio intervento, ritrovai quest’immagine mentre stavo facendo una carrellata di ricognizione nel mio archivio di diapositive. Fu un’epifania, niente di quello che avevo costruito in quel periodo era tanto equilibrato nei colori, nei contenuti e nella forma come questo carretto con cavallo bianco su sfondo nazionalpopolare. Mi sembrava, e mi sembra tuttora, un set neorealista, ma il mio intervento qui si limitò a scattare una fotografia, una delle poche occasioni in cui mi sono limitato a fare solo questo gesto. Fu un’epifania perché, andando a ritroso, credo che di li in poi ho ricercato una commistione maggiore fra realtà e finzione nella costruzione dei lavori, che siano immagini statiche o in movimento.

 

32 dicembre, 2011
Da questo lavoro si sono ramificate una serie di riflessioni riguardo l’immagine fissa e le immagini in movimento.
È un lavoro che nasce prima di tutto dalla macchina; erano in quel periodo da poco disponibili sul mercato le prime reflex che giravano anche in full HD – è stato possibile realizzare questo lavoro grazie a questa potenzialità della macchina e quindi grazie alla voglia di analizzare i comportamenti umani rispetto alla presa di coscienza di “divenir immagine”. Poi credo credo nasca anche dalla mia empatia per questi luoghi e personaggi che fanno parte dei miei ricordi di infanzia/adolescenza e del mio immaginario più intimo.

 

BELLOMO_ABBI_CURA_2012

Fabrizio Bellomo, Abbi cura della macchina su cui lavori è il tuo pane!, 2012

Abbi cura della macchina su cui lavori è il tuo pane!, 2012
Questo è un lavoro che tu conosci bene, lo hai “subìto” personalmente essendo in prima persona un abitante di Sesto San Giovanni (la Stalingrado d’Italia – mi fa sempre sorridere quest’appellativo), comune dove l’opera è rimasta installata per un paio d’anni. Era la prima volta che mi veniva commissionato qualcosa, nel caso specifico dal MuFoCo di Cinisello Balsamo.
Sono sempre più affascinato da questo connubio uomo – lavoro – macchina. Questa frase è un monito molto lucido su quello che siamo – tuttora, nell’era digitale la macchina è magari più gentile ma…
Ricordo con piacere un episodio legato a quell’installazione: ero in quel periodo solito girovagare sui social network e sul web alla ricerca di commenti, fotografie e critiche riguardanti questa grande installazione; trovai un utente che aveva commentato una fotografia dell’installazione scrivendo più o meno queste parole “stamattina ci sono passato davanti con la macchina, appena arrivato in ufficio ho pulito il mio PC e gli ho dato un bacino”.
All’epoca ti chiesi di fare un testo per il catalogo, mi sembrò totalmente azzeccata la mossa anche per il tuo passato operaio, la traslazione da ambiente operaio ad ambiente culturale – da industria fordista a industria culturale – è presente in tutta l’operazione legata a questo lavoro, dalla migrazione e traslazione di campo della targa alla migrazione di chi ha scritto il testo critico.
La targa trovata in una vecchia acciaieria abbandonata di Bari ha subìto un processo di cambio di proporzioni e di migrazione a Sesto San Giovanni nel carroponte dell’ex Breda Marelli (oggi luogo per concerti ed eventi) – migrazione uguale a quella che gli operai ex contadini hanno effettuato durante il novecento e processo simile a quello che molti operatori culturali effettuano anche oggi, da sud a nord,  per lavorare nelle industrie culturali.

Nota di Luca Andreoni: ho pensato di inserire il testo che a suo tempo scrissi per Fabrizio, fortemente autobiografico, nella pagina della mia biografia. Lo trovate qui, più o meno a metà pagina.

 

BELLOMO_persone

A cura di Fabrizio Bellomo, Le persone sono più vere se rappresentate, Postmedia Books 2014

Le persone sono più vere se rappresentate, 2014
È un libro edito da PostmediaBooks nato da una rassegna, a sua volta nata da certe mie cartelle disordinate e confuse che campeggiavano nel mio desktop.
Partendo da alcuni miei lavori, dalla serie relativa a 32 dicembre mi prese il capriccio di cercare cosa fosse stato fatto di simile o comunque in quella direzione anche da altri autori, artisti, registi pubblicitari ecc… Attraverso conversazioni con persone che stimo, materiali d’archivio, lavori di artisti e tante immagini sono andato alla ricerca delle metodologie, di cosa faccia si che alcuni lavori riescano a imprimere al loro interno una sorta di tensione con e verso la rappresentazione stessa.
Ragionare in modo più critico, riflessivo e teorico è stato un passaggio bello e importante per la mia ricerca. Sono metodologie che oggi porto con me anche nei lavori più operativi.

 

L’albero di trasmissione, 2014
È il mio primo film, è un lavoro a cui sono ancora troppo vicino per riuscire a parlarne con scioltezza. Mi fa piacere però accennare che da questo film sta nascendo, molto lentamente, anche un piccolo libro sul quartiere barese di San Cataldo, quartiere peninsulare che ospita il faro della città, dove il film è interamente ambientato.
Il volumetto sarà edito dalla casa editrice romana Linaria.
Uno dei personaggi più ingombranti del film sono alcune fotografie.

 

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Un ambiente congelato e ambiguo

Il lavoro dei giovani è spesso costretto a inventarsi forme autonome di diffusione, ma anche di elaborazione teorica. E non è detto che questo sia un male. Nelle difficili condizioni italiane, va però detto, tra crisi infinite e rigidità intergenerazionali, produrre una seria ricerca artistica non è certo per i deboli di cuore o per gli scarsi di motivazione. Tuttavia, con un movimento che mi ricorda l’inevitabile spostarsi di un liquido che trova sempre una via di discesa grazie all’essere sottoposto alle forze gravitazionali, il lavoro di alcuni giovani riesce a crescere e a maturare, grazie alla spinta della lucidità e della determinazione che essi riescono a dedicarvi.

Credo sia necessaria in questa occasione una premessa: il mio punto di osservazione, riguardo al lavoro dei giovani, è al tempo stesso limitato e fortunato. Limitato, perché dato che credo di poter parlare solo di ciò che conosco bene, e non essendo un curatore o uno studioso di mestiere, il mio panorama si riduce di solito alla conoscenza del lavoro dei miei ex studenti (quei purtroppo pochi che negli anni dopo gli studi riescono a proseguire seriamente la loro ricerca) nonché ad altri incontri più occasionali. Entrambi i casi di solito richiedono un tempo di almeno tre anni perché ne siano confermate le eventuali buone impressioni iniziali. Il mio osservatorio è però anche fortunato, perché le molteplici attività didattiche che svolgo mi permettono da un lato di insegnare in alcuni dei luoghi migliori per lo studio della Fotografia in Italia (o meglio, del nord Italia) e dall’altro, grazie a esperienze quali una residenza che curo da anni in Valle d’Aosta, di incontrare anche giovani provenienti da altre validissime realtà.

Succederà insomma qui, ogni tanto, che io voglia porre sotto la vostra lente i risultati di alcuni giovani che conosco a fondo e che ritengo stiano lavorando molto bene – con lo spirito, che regola anche le mie modalità di docente, che quanto più riescano a sorprendermi con la loro intelligenza tanto più sia giusto che io vi dedichi attenzione e rispetto. Lo dico chiaramente: vi sono docenti che tendono a creare piccoli cloni di se stessi e vi sono altri docenti ai quali interessa solo poter aiutare, maieuticamente, i giovani a trovare un loro personale approccio. Spesso questi due aspetti sono compresenti: ma per quanto mi riguarda, direi che senza dubbio mi pongo nella seconda categoria. Per questo, presenterò qui anche lavori che non necessariamente corrispondono a quanto penso o amo sul piano personale riguardo alla fotografia. Certe cose vanno comunque dette, certe cose vanno comunque viste e i giovani talenti hanno il polso del mondo: veloce, fresco, deciso, e, nei casi migliori, brillante.

Teresa Giannico

Teresa Giannico, Landscapes in Milan

Teresa Giannico costruisce le sue fotografie, letteralmente, con un laborioso processo manuale che prevede l’utilizzo massivo di immagini – realizzate da lei stessa o in alcuni casi prese dal web – che vengono stampate in modalità bozza con una stampante economica, e poi utilizzate per rivestire dei rustici modellini in cartone grossolano che tutti insieme formano dei diorami, dei teatrini che riproducono in scala la realtà – il più delle volte non inventata ma presa da altre fotografie. Teresa Giannico infine fotografa questi plastici imperfetti e ottiene così quello che viene consegnato alla nostra visione.

Le imperfezioni, le ruvidezze del suo lavoro mi paiono essere uno dei tratti salienti della sua ricerca e credo che un po’ paradossalmente siano una delle ragioni principali della fascinazione che possono produrre le sue opere. Nei risultati finali resta traccia evidente di tutta la complessa sequenza di produzione, e questo toglie completamente quella sorta di patinatura liscia con la quale spesso le fotografie rivestono la realtà. È dunque un processo quasi brutale, quello al quale sono sottoposte le suggestioni di partenza sulle quali lavora, e allo stesso tempo il processo è controllatissimo in ogni suo passaggio: forse nel coniugarsi di queste due istanze sta una delle chiavi di comprensione di questi complessi lavori.

Potrei andare avanti ancora a lungo, tanti sono gli stimoli e i ragionamenti che possono saltar fuori… Ma quando ho detto a Teresa Giannico che mi sarebbe piaciuto mostrare qui il suo lavoro le ho anche chiesto se poteva buttar giù qualche sua riga di riflessione personale. Bè, contrariamente alle mie aspettative (basate sulle abituali enormi difficoltà di scrittura di cui molti giovani oggi soffrono) devo dire che mi è stato dato un testo lungo e interessante – a dimostrazione di una volontà introspettiva sul proprio lavoro che dovrebbe essere esempio per molti. Mi fermo dunque qui e lascio parlare Teresa Giannico, scegliendo alcuni brani del suo testo. Inframmezzano le sue dichiarazioni alcune immagini dei suoi lavori, di un suo recente quaderno di appunti e del suo studio: lavori che potrete approfondire e vedere per esteso nel suo sito.

 


 

Teresa Giannico

Teresa Giannico, Rogoredo

Ho iniziato a lavorare con i diorami nel periodo in cui studiavo fotografia. Mi ero resa conto di non riuscire ad avvicinarmi appieno a questo mezzo, al gesto della fotografia. Avevo un’altra forma mentis; ho studiato per tanti anni pittura e illustrazione, dunque sono cresciuta con quel tipo di approccio all’immagine. Ma già quando studiavo all’Accademia di Belle Arti di Bari realizzavo pochissimi dipinti, prediligendo il collage e frequentando piuttosto le aule di scenografia, trascorrendo molto tempo nei corridoi pieni di plastici, assistendo da dietro le quinte agli spettacoli teatrali nei quali lavoravano i miei colleghi. Il montare una scena è dunque qualcosa che ho sempre vissuto, così come son sempre fuggita da qualsiasi tecnica specifica: non la pittura, non la scenografia, questa volta non la fotografia. Ma la sfumatura di ognuna sì.

Nel mio lavoro ho scelto di parlare di luoghi, del modo in cui li guardiamo e li viviamo, e per farlo li ricostruisco da zero realizzando dei plastici che poi fotografo. Spesso i miei scenari sono realmente esistenti, ma la scelta di ricostruirli mi aiuta a estrapolare oggetti e ambienti da un contesto specifico, a sintetizzarne le forme ed i colori, a spostare l’attenzione di qualche grado: dall’oggetto in sé alla sua natura. Con la fotografia diretta del reale non raggiungerei la stessa ambiguità. La fotografia riconduce troppo a un luogo preciso e all’esistenza di questo.
La mia pratica si sviluppa prendendo informazioni dalla realtà e scegliendo degli spazi; di questi poi rielaboro ogni singolo elemento. Costruisco tridimensionalmente gli oggetti di riferimento sui quali poi incollo le texture in precedenza fotografate e poi stampate. Non le dipingo, perché la pittura ha insito nel suo fare l’astrazione dell’oggetto. Io cerco una mediazione.
Utilizzo il cartone perché è materiale che non ha velleità di modellismo, lascia anzi delle imperfezioni e quella matericità ha un senso perché non ho la presunzione che i miei oggetti risultino veri. Ma nemmeno palesemente finti. Il risultato al quale ambisco è quello di un ambiente congelato e ambiguo.

Il diorama che costruisco potrebbe essere un’installazione. Ma a quel punto diventerebbe un’altra cosa. Un’installazione vive di una sua tridimensionalità, di una sua superficie ed è collocata in uno spazio. Il fruitore la guarda da lontano, poi si avvicina, ci gira intorno, decide come approcciarsi all’oggetto.
A me invece interessa creare un gap tra l’oggetto esistente e quello immaginato. Lo voglio estrapolare dal tempo e dallo spazio. Deve esistere solo in fotografia, che è quel momento che si è interposto tra l’artefatto e me.

Questi diorami sono per me un espediente per parlare di temi ai quali sono sempre stata legata, temi di impronta sociale; in modo particolare mi affascina il sentimento con cui l’individuo vive nel suo ambiente. Ho iniziato ad affrontare questo argomento occupandomi della mia città, Bari, percorrendo una linea immaginaria dal centro alla periferia della città e ragionando su come il variare dello spazio urbano, delle sue architetture, condizionasse gli atteggiamenti della popolazione.

Teresa Giannico, Bari

Teresa Giannico, Bari

Ho continuato questa ricerca con modalità meno documentaristiche, preferendo concentrarmi sull’atmosfera più intima riferita al singolo individuo, e aggiungendo ai miei interessi il tema della transitorietà e dell’incertezza, aspetti molto comuni e attuali derivanti dalla crisi economica.
Rogoredo è stata la prima serie con la quale ho sentito di poter raggiungere questo obiettivo. Il titolo viene dalla periferia del sud Milano nella quale vivo: un confine della città che è quasi solo capolinea di treni e autobus. Un luogo di transito per eccellenza, quindi, nel quale moltissimi passano, ma nessuno si ferma. Non diversa è la condizione all’interno della casa rappresentata. La serie indica un percorso nel perimetro del mio appartamento, una vecchia abitazione di ferrovieri, poi di liutai e di persone che col tempo vi sono transitate per periodi sempre più brevi. Un crocevia nel quale si sono stratificate tracce di persone presenti così come di altre che non ho mai conosciuto.


In seguito ho continuato a costruire paesaggi, più immaginati e sentimentali, nel trittico di Landscapes in Milan. Ho scelto ancora una volta Milano perché è la città in cui vivo e perché la ritengo il simbolo più efficace per rappresentare la condizione contemporanea italiana, con la sua crisi che ritengo non tanto economica quanto morale, culturale. Nelle velleità di Expo, e in tutta la sua foga, Milano mi appare sempre più un paesaggio solitario, dove tutto è periferia.
Questo lavoro passa attraverso diversi esperimenti, le costruzioni e le fotografie sono fatte a distanza di tempo le une dalle altre. A intervallarsi e a ispirarmi durante queste fasi è stata una lunga ricerca negli archivi storici dei musei di scienze naturali, dove ho trovato molte fotografie di diorami in costruzione. Mi piaceva l’immagine nel suo complesso, non la vedevo come una fotografia documentativa del lavoro in corso, bensì come la storia di un mondo parallelo. E quel modo di descrivere il paesaggio, dentro delle mura, così come la scelta per i visitatori di scoprire la natura attraverso quel mezzo, erano un linguaggio che mi apparteneva moltissimo.


Ora continuo la mia ricerca, di nuovo non lontana dalla città di Milano e dai suoi riflessi. Convivo ogni giorno col mutare del mio studio che si plasma in base alle mie esigenze, alla grandezza delle costruzioni, alla loro catalogazione. Per me il laboratorio è un luogo di estrema importanza, ho costruito personalmente i mobili e le attrezzature (veri), tutti in funzione dei miei oggetti (falsi). Credo che in questo modo acquistino anch’essi un’identità, e che costituiscano un filtro importante per il mio lavoro.

 

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