Una delle fotografie più affascinanti dell’Ottocento americano ritrae un photographic van, il carro di un fotografo, nel bel mezzo di un deserto nel Nevada. È stata realizzata nel 1867 da Timothy O’Sullivan (leggendario fotografo che si era fatto le ossa durante la Guerra di Secessione con Alexander Gardner) durante la prima di una serie di campagne di esplorazione geologica di alcune zone dell’Ovest degli Stati Uniti finanziate dal governo americano e capitanate da un geologo visionario, Clarence King. Per inciso, ricordo che King ricevette questo importantissimo incarico (la prima campagna di rilevamento governativa dopo la guerra) quando aveva ventisei anni. O’Sullivan ne aveva ventisette.
Su questa fotografia, un classico spesso presente nei libri di storia, sono state spese bellissime parole da parte di autori importanti – basti su tutti citare Robert Adams. È una immagine silenziosa e sospesa, come molte di O’Sullivan, che ci rimanda al fare fotografico: le tracce nella sabbia ci parlano di un accurato posizionamento del carro, le orme tracciano il percorso del fotografo che si è mosso per raggiungere la posizione di ripresa, che è poi quella dove siamo noi, che guardiamo dentro a questa immagine – come sempre: ma quelle orme ci fanno sentire lì, con un po’ di sabbia tra le dita.
L’orizzonte è nascosto, e mi è sempre parsa evidente la sensazione di trovarsi in mezzo ad un infinito Sahara, solitari e con l’unica rassicurante presenza del carro. Una immagine che pur senza essere drammatica allude all’avventura, al rischio dell’esplorazione, all’infinito di un vero viaggio.
Non è l’unica fotografia realizzata in quella campagna dove appaia quel carro. Ad esempio quella qui sotto ce lo fa vedere, più o meno con una ripresa simile, leggermente dall’alto. Ma la visione dell’orizzonte, e delle figure umane, mi pare faccia sì che qui non vi sia la magia evocativa della precedente, pur conservandone la purezza della luce e dell’essenzialità documentaria.
Qualche tempo fa ho avuto la curiosità di cercare dove fosse quel deserto, ed è bastata una veloce ricerca in rete per trovarlo. E con una certa sorpresa mi sono accorto che la duna dove era stato ripreso quel carro non è in mezzo a un immenso Sahara, bensì è, appunto, solo una grande duna. In un territorio indubbiamente desertico, ma diverso da quello che quella immagine ci fa immaginare. Andando a studiarsi meglio la cosa si capisce che anche ai tempi di O’Sullivan quella duna era nota, punto di riferimento per la rotta che avevano seguito decine di migliaia di cercatori d’oro e di migranti diretti verso la California già un decennio prima. E le stesse descrizioni di Clarence King della zona non sono così drammatiche, parlando di vegetazione lungo il Carson River.
E oggi? Al di là di intenzioni refotografiche, allego qui sotto alcuni screenshot, che mostrano la duna oggi. Non credo che sia cambiato molto nel paesaggio dai tempi di O’Sullivan. Certo, l’area è frequentata da altri tipi di carri. E nelle vicinanze ci sono alcune di quelle inquietanti zone di esperimenti militari che hanno il nome che inizia per Bravo seguito da un numero – chissà cosa ci sia di “Bravo” in queste cose… In particolare, nelle vicinanze di Fallon (cittadina che ai tempi di O’Sullivan ancora non esisteva, situata a poche miglia dalla duna) si estende l’area Bravo 20, nella quale negli anni 80 del Novecento un altro grande della fotografia americana, Richard Misrach, ha fatto alcune delle sue più belle e drammatiche fotografie dei suoi Desert Cantos.
Cosa ne esce da queste piccole scoperte? Che Timothy O’Sullivan era un grande fotografo. E che sapeva, come tutti i grandi fotografi, manipolare la realtà in modo che apparisse quello che era, grazie alla pienezza di uno stile documentario usato al meglio, ma anche qualcos’altro – quello che il fotografo voleva far sentire, oltre che vedere. E non c’è proprio nulla di nuovo o di strano nell’accorgersi di questo.
Presto riparleremo delle immagini riprese da O’Sullivan nel corso di queste campagne di “rilevamento” del territorio, che tanto hanno influenzato molta fotografia del Novecento e contemporanea – e delle loro scelte, appunto, manipolatrici della cosiddetta realtà.