Enrico Smerilli – Immagini come uno spazio operativo

Trovate qui di seguito la seconda delle tre interviste, curate dagli artisti stessi, con le quali Matteo Cremonesi ed Enrico Smerilli hanno scelto di presentare il loro lavoro dopo il loro incontro di Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo (trovate qui la prima, qui la terza). Questa volta è il turno di Smerilli, sul cui lavoro personale è intervistato da Cremonesi.
Se nel lavoro di Cremonesi sembra predominare una forte consapevolezza critica e un ferreo controllo del processo, che si traducono nella ricercata pulizia dei risultati, perfino nell’eleganza compositiva delle soluzioni espositive, da parte di Smerilli mi pare che si attivino meccanismi misteriosi e silenziosi, che portano addirittura l’autore a dichiarare, meravigliosamente, che “a volte il caso è coautore dei miei lavori”. A vegliare sul processo produttivo e distributivo di Smerilli – ancora, misteriosamente – ci sono diversi concetti portanti, da due dei quali sono affascinato: l’idea di una ambiguità delle immagini (collegata all’idea apparentemente semplice di “immagine aperta”) e la certezza che i prelievi di materiali dalla rete verranno poi, dopo essere stati elaborati dall’autore e risignificati, rimessi in circolo nella rete stessa – passibili dunque di eventuali altri prelievi, disegnando quasi un sistema circolatorio a flusso continuo.

Enrico Smerilli, Untitled#1 (2014), stampa Giclée su Fine Art Hahnemühle

Enrico Smerilli, Untitled#1 (2014), stampa Giclée su Fine Art Hahnemühle

 

INTERVISTA A ENRICO SMERILLI, di Matteo Cremonesi

MC/ La maggior parte dei tuoi lavori fotografici gioca ambiguamente tra soggetti familiari e alterazioni grafiche, come sul contrasto fra comunicazione ed errore. Da cosa nasce questa pratica, come descriveresti il tuo lavoro?

ES/ Ciò che mi interessa delle immagini è una potenziale ambiguità, che in modo talvolta latente talvolta dichiarato l’immagine stessa possiede.
Si può dire che io lavori su questo, l’ambiguità. Intesa come la differenza linguistica che si può creare fra il mittente e destinatario di una comunicazione visiva. Una differenza che traccia un territorio ambiguo, del possibile, uno spazio in cui il mio lavoro, la mia pratica, desiderano collocarsi.
Cerco di realizzare delle immagini che siano il più possibile ambigue; il modo in cui avvicino un soggetto, un tema, un immaginario, cerca il più possibile di trattenere in attivo una tensione nei confronti della potenziale ambiguità della comunicazione.

MC/ Questa ricerca quindi si traduce in una sfida della percezione visiva e comunicativa, stravolgendo, separando le immagini dalla loro connotazione ordinaria.

ES/ Sì, intendo le immagini come uno spazio operativo, una tavola sulla quale le intenzioni di interferenza si muovono su elementi-soggetti convenzionali, ma che secondo il modo in cui vengono vissuti mutano la propria funzione o disfunzione. Una semplice immagine di un pasticcino su un vassoio si trasforma in una finestra, in un foro aperto sulle trame tecniche del fare immagine, il tutto collegato da scale cromatiche e tensioni formali atte a rendere accattivante quell’instabilità.
Rendere l’immagine di un soggetto riconoscibile e banale, qualcos’altro. Aprire per mezzo di una strategia grafica l’immagine a letture inaspettate, sovrapponendo o alterando alla linearità di una comunicazione standardizzata le istanze di una comunicazione sensibile.

MC/ Che intendi per immagine aperta?

ES/ Un’immagine aperta è un’immagine che permette interpretazioni diverse, in base all’osservatore.

MC/ Vi è un carattere ludico?

ES/ Sì, certamente c’è un aspetto ludico, istintivo, nell’operare – che si presuppone possa avere anche un eventuale spettatore.

MC/ Che ruolo ha il caso all’interno della tua prassi lavorativa?

ES/ Cerco sempre di lasciare le trame del mio lavoro abbastanza larghe perché possa svilupparsi in modo naturale e spontaneo, e ci sia un margine per stravolgimenti e contraddizioni interne, durante il tempo, sempre piuttosto esteso come durata, in cui lo stesso lavoro si evolve.
In alcune serie il caso è qualcosa di più, ad esempio in Atlanti, Mountains(s) o Layers la decisione di lavorare su un processo, una combinazione di fattori o di pratiche, produce che sia il caso a definire l’immagine finale. In alcuni casi quindi è un coautore del lavoro stesso.

MC/ E l’istinto?

ES/ Ho sempre creduto molto nel valore dell’istinto. Un importante grado di istintualità o sensibilità visiva è sempre presente all’inizio, durante e a conclusione del lavoro.

MC/ Molti dei tuoi lavori presentano caratteristiche formali capaci di appropriarsi abilmente e sensibilmente di modalità visive e sapori ricorrenti in immagini di tendenza, immagini che possiamo facilmente trovare sui social network o ancora in territori trasversali a moda e design.

ES/ L’incontenibile e forse persino inconcepibile flusso di informazioni, di impulsi, di merci, moltiplicati esponenzialmente dalla virtualità del web impone oggi al fruitore medio una compresenza di immaginari, estetiche, forme, apparenze dell’immagine a cui sono molto interessato e che intendo come un campionario grammaticale pronto all’uso e alla distorsione.
Credo inoltre che sia più interessante mantenere un dialogo, seppur creativo e alternato, con queste espressioni, piuttosto che escluderne le caratteristiche dal mio processo creativo. È un modo, forse, per interferire con il presente.

Enrico Smerilli, Untitled#7 (2014), stampa Giclée su Fine Art Hahnemühle, dimensioni variabili

Enrico Smerilli, Untitled#7 (2015),
stampa Giclée su Fine Art Hahnemühle, dimensioni variabili

MC/ Quindi la rete, internet…

ES/ Sì. Il web, come meccanismo di distribuzione, input e output, da sempre ha giocato una parte centrale nella mia attività, prima come fruitore e poi come autore.

MC/ Sapresti tracciare un’origine di questo tuo interesse verso le possibilità metodologiche e tecniche di approccio al lavoro visivo?

ES/ La mia ricerca estetica si porta avanti all’interno di un mondo tecnologizzato, digitalizzato e virtualizzato. I lavori che produco sono una reazione al non senso provocato dall’eccesso di tutte queste informazioni. Un tentativo di organizzare una realtà che eccede, di creare dei punti di resistenza o di disfunzione.

MC/ Prima del tuo percorso accademico ti sei diplomato allo IED, quanto credi che quella fase del tuo percorso abbia influito sul rapporto che hai con le immagini?

ES/ È stato un momento importante e significativo per molti aspetti. In primo luogo è stato il primo reale contatto con il mondo dell’arte e della “creatività” in genere. E secondariamente, ma non è meno importante, credo che la mia formazione di grafico mi abbia insegnato a intendere le immagini come soggetto sempre potenzialmente suscettibile di un processo, di una manipolazione. Comprendendo la regia o la progettualità dietro la realizzazione di un’immagine ho in qualche modo desacralizzato il rapporto che intrattenevo con questa, un rapporto viziato da una sorta di timidezza.

MC/ Alcuni dei tuoi lavori sono raccolti in serie fotografiche, tuttavia le immagini appartenenti a queste stesse serie appaiono spesso formalmente molto diverse fra loro, legate solo da qualcosa: come organizzi il tuo lavoro?

ES/ La mia ricerca è un caotico work in progress che prendo molto sul serio. Questo “caos” mi permette di perdere tante cose. Lascio molti lavori aperti, sospesi per tanto tempo che spesso non sono nemmeno sicuro di cosa si tratti. Cosa sia studio, cosa è opera e cosa sia documentazione. La parte più processuale di un lavoro, che si snoda nel tempo in periodi più o meno estesi, di poche settimane oppure anni, a un certo punto diventa lavoro, pratica condivisa. Mentre spesso qualcosa che nasce chiaramente con l’intento di divenire immediatamente opera diventa poi parte di un processo incessante di rielaborazione.

MC/ In alcune tue serie fotografiche come “Here is where we meet“ o “ Layers”, il rapporto con il medium fotografico sembra sempre meno significativo, mentre un ragionamento grafico sembra sostituirlo.

ES/ Apprezzo l’artificio, lo trovo sincero e attuale. Ho una curiosità innata per i segni e l’astrazione delle immagini e dei discorsi, è una capacità acquisita nell’elaborarle e costruirle che credo di dover incoraggiare sempre più.

MC/ Un’ultima domanda: il tuo lavoro sembra trattenere, proprio per mezzo di questi interventi atti ad alterare contenuto e struttura visiva, una tensione quasi pittorica. Ti sei mai confrontato con questo medium o hai dei riferimenti in tal senso?

ES/ Sono sempre stato molto attratto dalla pittura come dal disegno. Ho sempre guardato a queste pratiche in modo quasi magico. Purtroppo non sono dotato in tal senso, ma è un linguaggio che continua a interessarmi e affascinarmi.

 

http://www.enricosmerilli.com
info: enrico.smerilli@gmail.com

 

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