Luca Panaro – Un’apparizione di superfici

La serata di apertura del nuovo ciclo di incontri Camera con Vista, che anche quest’anno ho organizzato in collaborazione con la GAMeC di Bergamo quale docente presso l’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo, è stato tenuta da Luca Panaro, che con il suo consueto piglio brillante e un po’ polemico ha esposto le sue idee sulle punte più recenti della ricerca fotografica, italiana ed internazionale.

Prima di dargli la parola, mi sono permesso di avvisare il pubblico (e lo faccio anche qui) che probabilmente durante questi incontri ci si sarebbe anche innervositi, perché per molti aspetti i lavori e gli artisti presentati ci avrebbero messo a disagio, mettendo in continua discussione le certezze che crediamo di avere sulla fotografia. Credo sinceramente che il nuovo secolo stia offrendo novità e difficoltà interpretative del tutto nuove, a volte scardinando – dal di dentro, ma anche accogliendo imprevisti apporti esterni – la tradizionale idea che abbiamo di fotografia. Tutto questo ciclo di incontri si è basato su questa difficoltà, sulla messa in tensione di verità che pensavamo consolidate. Devo dire che il pubblico ha reagito bene a questa prima occasione, sia seguendo con attenzione precisa le quasi due ore filate dell’intervento/lezione di Luca Panaro, sia rivolgendogli alla fine numerose domande intriganti.

Luca Panaro ha scelto di inviarmi, per questo blog, solo un breve abstract delle approfondite riflessioni del suo intervento, scelta dovuta al fatto che in questo periodo sta scrivendo intensamente proprio di questi temi – scritture delle quali speriamo di vedere presto pubblicati gli esiti. Grazie Luca!

 

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Negli ultimi anni la fotografia pare avere trovato la sua vera vocazione, ormai libera dalle sovrastrutture culturali impostegli dagli stessi fotografi. A favorire questo rinnovato status del mezzo fotografico non è soltanto il digitale, con le sue caratteristiche, ma i dispositivi che lo veicolano e i comportamenti che favoriscono. Gli Smartphones in primis che mutano il nostro modo di fotografare, con riprese sempre più da vicino, come se il mezzo fosse un’estensione del nostro braccio. Le fotocamere dei telefoni, come scanner incorporati negli arti di ognuno di noi, sono un’arma sempre carica, estraibile al bisogno, capace di registrare in modo ravvicinato ciò che ci circonda.

La forma mentis sembra quindi essere quella dello scanner, dal fuoco fisso e ravvicinato, che prende il posto della più tradizionale visione prospettica dell’orizzonte. Questa pare soppiantata da una visione “da tavolo”, capace di restituire immagini più vicine al gusto di uno studio grafico che alla composizione pittorica. La fotografia scopre la bidimensionalità che da sempre la caratterizza, per troppo tempo messa a tacere dalla ricerca della terza dimensione. Il mondo in cui viviamo è fatto di dati che si leggono sugli schermi dei nostri dispositivi, visori piatti che originano fotografie piatte, a-prospettiche.

Tra gli interpreti di questo nuovo approccio alla costruzione dell’immagine, Taisuke Koyama (Tokyo, 1978) e Maxime Guyon (Lyon, 1989). Ma anche Enrico Smerilli (Vercelli, 1978) e Matteo Cremonesi (Milano, 1986), artisti italiani che ho segnalato in questa circostanza come interpreti di questa nuova iconografia che avanza.

 

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