Caro Luca, Caro Luca: Generazione critica

Pochi giorni fa ho avuto via mail un fulmineo scambio di vedute con Luca Panaro che condivido qui oggi. Mi pare interessante non solo per i temi che affronta, ma anche perché dimostra che – per fortuna! – a volte i confronti intellettuali non sono un pranzo di gala, ma vanno chiaro e dritto al punto delle questioni che ci interessano. Sono felice che Luca abbia raccolto e rilanciato in modo così intenso le mie battute, e vi anticipo che abbiamo pensato di poter continuare, più avanti, scambi di questo tipo. Stay tuned.

 

Da: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Data: 10 maggio 2015 19.08.10 GMT+02.00
A: Luca Panaro <lucapanaro.net@gmail.com>
Oggetto: Generazione critica

Caro Luca,
mi ha fatto molto piacere che tu abbia voluto darmi, quando ci siamo visti a Bergamo, i due volumi di Generazione critica che hai curato con Marcella Manni. Il primo, dell’anno scorso, come ti ho detto l’avevo già letto ma non lo possedevo, e mi sono precipitato a rileggerlo. Di seguito ho letto anche il secondo, ricavandone, devo dire, lo stesso piacere e la ricchezza di stimoli che a suo tempo mi aveva già dato il primo. In entrambi mi ha fatto piacere anche riconoscere i nomi di persone che conosco bene e per le quali nutro molta stima: una garanzia a priori. Non credo sia il caso qui di scendere in dettaglio sui tanti contributi che i due volumi contengono – ripeto, sono tutti interessanti, utili e in qualche caso anche per me affascinanti, e potrei fermarmi qui.

Ci sono tuttavia due osservazioni che mi preme farti.
La prima riguarda la questione del linguaggio usato. Cerco di essere conciso: sappiamo bene come un serio impianto saggistico richieda un linguaggio appropriato e controllato – dunque a volte anche impegnativo. Io non sono certo tra quelli che pensano che la divulgazione debba essere a tutti i costi facile, figuriamoci in saggi come questi… Ecco, forse più che la relativa difficoltà dei testi mi ha un po’ colpito il loro, a mio parere eccessivo, conformismo nei riguardi del linguaggio della tradizione accademica italiana (sto parlando della scrittura, intendiamoci, non dei contenuti!). La domanda è semplice: visto che i saggi si occupano in gran parte degli elementi di novità nel panorama della fotografia (e non solo), non credi che all’analisi di fenomeni nuovi dovrebbero corrispondere anche tentativi di linguaggi nuovi? Perché mi hanno dato l’impressione di strizzare l’occhio agli ordinari delle università e al loro linguaggio? Non so se pensare al desiderio inesausto di cooptarsi all’interno di un sistema culturale che peraltro sappiamo respinge le nuove leve o al fatto che si sono letti troppi saggi francesi, tradizionalmente più oscuri, rispetto ai solitamente chiarissimi testi anglosassoni. Scusa se forse sembro un po’ brutale, ripeto, voglio molto bene alle persone che conosco che hanno collaborato a questi volumi, non c’è nulla di personale ma piuttosto la vedo come una importante questione intellettuale.
La seconda questione riguarda una singolare coincidenza. Proprio nelle ultime due o tre settimane in ben tre occasioni diverse mi son sentito dire da autori/artisti piuttosto giovani – ma comunque con un lavoro già abbastanza solido – che non sentono di avere un, come chiamarlo?, sistema critico di riferimento, non sentono di avere contenitori critici per il loro lavoro. Ti dico subito che ogni volta ho detto loro che a me pare che i critici debbano arrivare dopo i loro lavori, non prima. Altrimenti si tratta di operazioni, come le ha chiamate di recente Vittore Fossati proprio a Bergamo, più di marketing/packaging che di vera ricerca, e comunque di solito sono una modalità più diffusa a livello curatoriale che critico. Ti confesso che la cosa mi ha un po’ spiazzato. Sicuramente i più giovani soffrono dell’assenza di contributi critici che riguardino il loro lavoro –  e volumi come il vostro sicuramente sono una bellissima eccezione – ma aspettarsi in un certo senso che la critica costruisca a priori un sistema al quale riferirsi mi suona strano. Ecco, mi chiedo se nella tua posizione, che vedo molto di frontiera avanzata su questi temi, ti siano capitate le stesse richieste, e cosa ne pensi.

Mi fermo qui, e ti ringrazio ancora: per i libri e per il vostro prezioso lavoro.
Luca

 

Generazione_critica

 

Da: Luca Panaro <lucapanaro.net@gmail.com>
Data: 12 maggio 2015 12.09.23 GMT+02.00
A: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Oggetto: Re: Generazione critica

Caro Luca,
è stato un piacere partecipare agli incontri di fotografia che hai organizzato con la GAMeC di Bergamo. Questi sono tempi in cui il dialogo è l’unica cosa in cui vale veramente la pena investire. Generazione critica prima ancora di essere una collana di libri è un convegno annuale, ma anche un network che ci porta in varie città italiane per confrontarci sull’arte fotografica di oggi. Con Marcella Manni siamo già al lavoro per la terza edizione che si terrà a Modena presso Metronom il 23-24 ottobre 2015. Sono felice che tu abbia apprezzato il progetto e che la lettura dei volumi appena pubblicati da Danilo Montanari (editore colto e illuminato) ti abbiano suggerito le questioni che poni, alle quali cercherò di rispondere nel modo diretto che tu stesso suggerisci, e che apprezzo molto.

In Oriente si dice: «se qualcuno vi indica la luna, guardate la luna e non il dito puntato a indicarla». In seguito all’esposizione pubblica dei contenuti di Generazione critica ho conosciuto una serie di persone attente a guardare il dito ma incapaci di scorgere la luna. Scusa se la metto giù dura, ma per quanto la tua osservazione sia interessante e pertinente, ancora una volta si ostina a guardare nella direzione sbagliata. Sono d’accordo con te che il linguaggio sia importante, io sono il primo a prendere il modello anglosassone come esempio di chiarezza e semplicità, detto questo però credo che il punto sia un altro. Chiedere spiegazioni sul linguaggio in un epoca in cui nessuno si occupa di contenuti, è come fermare una partita di Champions League perché i giocatori hanno la maglietta sporca di fango, invece di concentrarsi sul gioco di squadra. Detto questo, ripeto, il linguaggio è importante, hai ragione, ma i contenuti lo sono ancora di più. Mi piacerebbe parlare di quelli. Sogno il giorno in cui si possa discutere di ciò che è stato fatto, non di quello che si sarebbe dovuto fare. Siamo tutti presi a cercare il pelo nell’uovo. Ma una volta trovato il pelo cosa rimane? Non rimane niente, l’uovo è ormai marcio. Quel niente che i giovani sentono sulle loro spalle come un macigno. E così mi collego alla seconda questione che poni.
I giovani autori che lamentano l’assenza di un sistema critico di riferimento hanno ragione. I critici non devo arrivare dopo i lavori degli artisti, ma assieme, a volte anche prima se possibile. I contenitori critici, come li chiami tu, sono fondamentali, è su quelli che si dovrebbe costruire la cultura del proprio tempo. Il problema, come giustamente sottolineato dagli artisti, è invece che mancano questi riferimenti. Mancano non perché non ci siano validi critici, teorici, artisti, intellettuali in genere… quello che manca è appunto un contenitore di queste risorse che altrimenti rischiano di andare disperse. Il progetto Generazione critica è nato proprio per questo, così come altre realtà che per fortuna stanno nascendo in risposta a questa mancanza. Dire che i critici devono arrivare contemporaneamente alle opere degli autori o addirittura prima, non vuole dire necessariamente parlare di strategie di marketing, anche se è vero che spesso accade questo fenomeno. Per come la vedo io il critico deve essere un compagno di viaggio per l’artista, non serve soltanto a divulgare il suo lavoro o a collocarlo sulla miglior piazza. A quello pensa già il curatore 😉 e qui potremmo disquisire per ore sulle differenze fra i due approcci. Il critico dovrebbe innanzitutto capire il proprio tempo, immergersi nelle problematiche culturali degli anni in cui vive (non del Novecento, siamo nel 2015), azzardare casomai qualche ipotesi sul futuro più prossimo, rischiare, sbagliare. È questo che manca agli artisti, questi riferimenti. Costruiti giorno dopo giorno andando a braccetto con gli stessi autori, senza ostilità, senza paura.

Ci conosciamo da pochi mesi caro Luca, ma abbiamo avuto più occasioni di dialogo noi che amici di vecchia data, almeno su questi temi. Continuiamo così, imparando a ricordare le parole delle persone con cui possiamo avere uno scambio di idee, dimenticando invece i silenzi di quanti si professano amici.
Un abbraccio,
Luca

 

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Luca Panaro – La fotografia tra ostracismo e vanità

Il 30 aprile scorso è stata la volta di Luca Panaro nella serie di incontri organizzati con la GAMeC di Bergamo. Panaro è andato con estrema chiarezza dritto al punto, proponendo sia esperienze personali che riflessioni più ampie riguardo alle persistenti difficoltà del rapporto tra mondo dell’arte e fotografia, individuando da un lato i ritardi culturali e le approssimazioni degli addetti ai lavori riguardo alla fotografia, e dall’altro evidenziando, con a tratti brutale evidenza, le ingenuità dell’approccio alla questione da parte di tanti fotografi – tema, quest’ultimo, del quale credo non si discuta ancora abbastanza.
Gli appunti che ci vengono proposti riassumono i punti sui quali si è centrato il suo ampio discorso, proponendo anche alcuni esempi di lavori che pur essendo molto orientati artisticamente trovano tuttavia, per sua diretta esperienza, ancora difficoltà ad essere accettati, ad esempio, dalle riviste d’arte.
Aggiungo di avere molto apprezzato il suo invito finale – rivolto soprattutto ai giovani in risposta ad alcune domande – a prendersi dei rischi, a procedere sperimentalmente evitando terreni troppo sicuri (terreni tra l’altro già fin troppo solidamente occupati) e ad accettare anche la possibilità del fallimento. Forse non ricordiamo mai abbastanza la ricchezza dell’esperienza del fallimento.

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La fotografia tra ostracismo e vanità

Da una parte prendo atto dell’esclusione dalla comunità artistica di quegli autori “colpevoli” di utilizzare il mezzo fotografico in modo troppo puro. Dall’altra noto la crescente ambizione dei fotografi di essere parte del sistema dell’arte a tutti i costi. Tra questi due eccessi forse risiede la complessità della fotografia italiana, che oggi tenta faticosamente di emergere dalla palude dell’indistinto.

Ostracismo: ovvero quando il mondo dell’arte mette al bando la fotografia
Dal 2001 scrivo su riviste d’arte. Spesso propongo di recensire mostre di artisti che lavorano con la fotografia. Questo è quello che mi sento rispondere ormai da quindici anni: «Ho letto il progetto e devo dirti che è veramente molto interessante; purtroppo però non saprei come contestualizzarlo all’interno della rivista visto che è materia prettamente fotografica». Perché le riviste d’arte non si occupano di fotografia? Perché il sistema dell’arte è ancora in imbarazzo di fronte ad opere puramente fotografiche?

Vanità: ovvero quando il fotografo si compiace delle proprie capacità tecniche
Nel 1859 per Charles Baudelaire la fotografia era la palestra dei pittori mancati. E oggi? Visitando gli stand di alcune fiere, dopo 156 anni, verrebbe da pensare che Baudelaire non aveva tutti i torti. E non è solo colpa degli “autori”, piuttosto di galleristi e collezionisti che li sostengono, digiuni di fotografia a tal punto da apprezzare soltanto le immagini che più si avvicinano alla loro vera passione, la pittura. E così che appese alle pareti delle più disparate gallerie vediamo fotografie dalle suggestioni varie, spesso con richiami al romanticismo, al realismo, all’impressionismo… mai alle specificità della fotografia!

 

Quali altre prospettive per la fotografia?

Olivo Barbieri, Alps - Geographies and People #2, 2012

Olivo Barbieri, Alps – Geographies and People #2, 2012

La sparizione del punto di vista
Osservando la ricerca più recente di Olivo Barbieri notiamo la sparizione del punto di vista, l’aggiramento delle regole della prospettiva, la ricerca di un “punto-di-essere” che si oppone al “punto-di-vista”, come sostiene Derrick de Kerckhove, cioè qualcosa di più fluido, che va oltre rispetto a ciò che vedo. Oggi infatti possiamo “sentire” oltre ciò che vediamo, possiamo sviluppare più che vedere. Questo è il grande salto in avanti che ci propongono le nuove tecnologie e i loro linguaggi. Quello che nelle immagini fotografiche di Barbieri è segnato dal «ritorno al disegno, alla forma scarnificata delle cose, allo schizzo che immagina il progetto». Come è possibile apprezzare nelle immagini più recenti della decennale serie fotografica site specific_. Anche in Alps Geographies and People (2012), Barbieri ci offre una visione, come lui stesso dice, vista dagli scalatori: «cime, precipizi, crepacci, miraggi e allucinazioni nelle geografie. In queste immagini è tutto vero. Le proporzioni e le forme sono reali. Anche le persone  e la posizione in cui si trovano sono reali». Eppure ci vengono mostrate come se fossero “solid color”, cartine mute della geografia che permettono di rappresentare sinteticamente  una forma. In questo modo l’artista retrocedere a una forma primigenia delle montagne, che si mostrano piatte, prive di riferimenti prospettici.

 

Fabio Sandri, Io, 2003

Fabio Sandri, Io, 2003

Il materiale fotografico
Nell’arte di Fabio Sandri invece si riscontra un modo diverso di intendere la fotografia. Nell’opera intitolata Io (2003) il corpo dell’artista è registrato sulla carta con la tecnica del Fotogramma, cioè proiettando sul materiale fotosensibile il volume tramite una luce posta allo zenit. L’alone chiaro che si scorge è il profilo della schiena e della testa, le macchie più chiare al centro sono i piedi che toccano la superficie della carta. È una rappresentazione della figura umana anomala, zenitale, “precipitata”, che l’occhio non avrebbe mai potuto registrare. I bianchi corrispondono al contatto del corpo con la carta; i neri mostrano l’assenza di contatto quindi l’esposizione totale alla luce; i grigi invece indicano le rifrazioni dello spazio circostante, che consente alla luce di entrare anche dentro l’ombra. È la combinazione di grigi a dare l’idea di volume e non di silhouette, di presenza plastico-spaziale. Questo aspetto distingue sostanzialmente il lavoro di Sandri dagli esperimenti off-camera già noti alla storia della fotografia. Quest’ultimi, anche quando suggeriscono una tridimensionalità, sono riferiti solitamente all’oggetto, in Sandri è la verticalità dello spazio ad essere indagata, rigorosamente in scala 1:1.

 

Carlo Zanni, The Fifth Day, 2009

Carlo Zanni, The Fifth Day, 2009

I flussi di dati
Dall’inizio degli anni Duemila la pratica artistica di Carlo Zanni prevede l’uso di dati prelevati da Internet per creare esperienze di coscienza sociale basate sul trascorrere del tempo. Nell’opera intitolata The Fifth Day (2009), l’artista mostra dieci fotografie da lui realizzate in Egitto che descrivono una corsa in taxi; disposte in sequenza, cambiano ogni volta che si ricarica la pagina web da cui sono fruibili, oppure quando i dati a cui sono collegate vengono modificati. Ogni fotografia è dinamica (anche se statica in chi la guarda), ovvero utilizza dati provenienti da server di terze parti, alcuni dei quali derivati dall’utente stesso e dal suo collegamento a Internet del momento (come il nome della città scritto sull’insegna di un negozio: “Rome” se collegati da Roma, “Beijing” da Pechino, “Redmond” dallo stato di Washington, “Temperley” dall’Argentina). In altri casi la dinamicità dell’immagine è data dagli ultimi collegamenti ricevuti: i colori degli abiti appesi in un mercato di Alessandria d’Egitto fotografato dal guard rail mutano in base agli indirizzi IP degli ultimi dieci utenti. L’operazione si ripete per ciascuna immagine, ottenendo un’opera che risente degli strumenti utilizzati per crearla, cioè effimera, soprattutto quando i dati che l’opera utilizza come materia prima non sono sotto il diretto controllo dell’artista. La maggior parte delle opere di Zanni smettono di funzionare a distanza di tempo dalla loro realizzazione, immergendosi così nella realtà, subendo la stessa sorte di un oggetto di uso comune. Questa precarietà dell’opera, se accettata (non solo dall’artista), diviene uno degli elementi caratterizzanti la ricerca contemporanea.

Conclusione

La cura ai “mali” della fotografia (ostracismo e vanità), punto di partenza di questa breve riflessione, trovano la giusta cura nella scuola, nella formazione, nell’educazione all’immagine, nella costruzione di quella consapevolezza critica necessaria a cogliere le peculiarità del mezzo, senza piegarlo, come spesso accade, al gusto di un’altra epoca. Questo porta alla creazione di nuovi canali di distribuzione per l’arte, aggiornati al nostro tempo, capaci di veicolare soprattutto le idee di un autore, non solo i loro manufatti. Come dice Brian Eno: nel futuro non si compreranno i lavori di un artista; si comprerà un software capace di ricreare il suo modo di vedere.

 

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Le fotografie che non facciamo

Mi sono trovato di recente a riprendere in mano un libro di un paio d’anni fa che per varie ragioni non avevo letto, dunque le mie sono considerazioni un po’ inattuali, come del resto mi piace quasi sempre fare. Si tratta di un libro di fotografie atipico, perché raccoglie solo scritti che descrivono, o parlano di, fotografie non fatte. La raccolta, che comprende i contributi una sessantina di nomi, è stata realizzata da Will Steacy, un fotografo newyorkese che produce interessanti lavori molto impegnati nel sociale, per i quali tuttavia talvolta utilizza il lento grande formato. In questo caso però la sua operazione è una riflessione tutta interna al fare fotografia, e dedicata, appunto, alle occasioni nelle quali per varie ragioni non viene prodotta nessuna fotografia.

 

Photographs not taken

 

Il libro contiene testi perlopiù descrittivi, narrativi, dunque è agile da leggere. Traduco qui di seguito due brani dall’introduzione di Lyle Rexer perché in poche righe chiariscono il contenuto del volume:

[…] La brillante collezione di Will Steacy è dunque una delle forme di produzione di arte contemporanea che ci è familiare sin da quando nel 1958 Yves Klein presentò uno spazio vuoto alla Iris Cert Gallery? È il capitolo più recente di una storia di negazioni, rifiuti, strategie anti-artistiche, trucchi di marketing che a loro modo contribuiscono a definire l’arte contemporanea? Siamo a conoscenza di architetti che non costruiscono, di artisti che rinunciano a produrre oggetti, di registi che non raccontano storie, di musicisti che esplorano il silenzio, di coreografi rilassati nell’immobilità. Ma fotografi che rinuncino alle immagini – devono sicuramente essere gli ultimi esploratori dello spazio negativo. E sto parlando di fotografi classici, e non di quelli che hanno già rinunciato alle abitudini tradizionali della fotografia in cerca di maggiore rilevanza politica o di esplorazioni dell’ineffabile.

[…] In questo libro ci sono fotografie che non hanno potuto essere scattate, fotografie alle quali è stato impedito d’esser prese, fotografie che sono state fatte ma non sono riuscite, fotografie che si è quasi arrivati al punto di fare ma che si è scelto di abbandonare, che si potevano prendere ma alle quali si è rinunciato, fotografie che sono sfuggite e sono diventate memorie prima di poterle prendere, e naturalmente fotografie di qualcosa che in realtà erano di qualcos’altro che non si poteva mostrare direttamente.

L’argomento è affascinante, e sono certo che ognuno sia immediatamente andato col pensiero alle proprie fotografie non fatte. Devo subito però dire che questo libro mi ha fatto venire un grande appetito ma non l’ha saziato – penso che si potesse fare di più. Il fatto è che nel volume sono raccolti contributi che in gran parte fanno capo a fotogiornalisti o a fotografi che gravitano molto nell’area, come chiamarla?, della comunicazione. E perfino la gran parte dei contributi di autori consolidati in campo artistico (tanto per fare un esempio, l’italiano Massimo Vitali) alla fin fine non si impegnano in una vera riflessione sul significato e sul senso di un “fotografia non fatta”, bensì si dilungano in -talvolta anche affascinanti- racconti di fatti: degli eventi che hanno prodotto quell’assenza. Perlopiù, tra l’altro, legati a quell’idea di momento decisivo che francamente considero essere ormai da evitare come la peste – e una delle più importanti ragioni della crisi, anzi forse della morte, del fotogiornalismo. È un aspetto complesso che sicuramente incide pesantemente sulla fotografia che in generale ha a che fare con le persone, sul quale senz’altro torneremo.

I racconti nel volume sono comunque interessanti, perché mostrano nostalgie, ansie, dubbi, rimpianti, imbarazzi e perfino, in qualche caso, soprassalti etici: dimostrano insomma che i fotografi, specialmente quelli “del mestiere”, sono dei sentimentali – il che mi pare anche una bella cosa, immersi come siamo nello sbrigativo cinismo del nostro tempo. Ho anche pensato che dovrei dire la mia, su questa questione, e lo dico qui nel prossimo paragrafo. Mi piacerebbe anche chiedere a chi legge un suo contributo di riflessione – ma forse mi spingo troppo in là…

Per quanto mi riguarda, penso che un fotografo viva costantemente immerso in fotografie non fatte. Io sinceramente ne vedo in continuazione, e preciso che sto parlando della realtà fisica, non del web o di altro. Vivo (viviamo?) in una specie di flusso ininterrotto di possibili fotografie che si parano davanti, ognuna delle quali potrebbe anche a suo modo essere importante e interessante – a volte unica, a volte inizio di una serie, chissà. Vedo continuamente apparire nel mondo che mi circonda, ed è bellissimo, anche immagini di altri, dei miei tanti riferimenti che qui non posso elencare – permettete il pudore. È un piacere continuo, e non ho affatto nostalgia delle immagini che lascio andare. Tutte queste immagini non le sento come perdute, perché non sono mie: semplicemente mi scorrono davanti. Si fa un po’ di festa, ovviamente, quando si prende la decisione – nel mio caso rara – di trattenerne qualcuna. Decisione spesso molto meditata e anche, scusate la brutta parola, progettata. Comunque rara, come tutte le feste.
Penso che i fotografi abbiamo dentro di sé un istinto predatorio che andrebbe tenuto a bada ed educato, perché spesso i fotografi hanno la tendenza a fare il deserto intorno a loro, prendendo, o cercando di prendere, tutto il possibile nelle varie situazioni che incontrano – e la semplicità del digitale ha portato questo aspetto a punti a volte estremi. Ecco, a me succede spesso, anche mentre lavoro ai miei progetti, il contrario: di vedere altre immagini importanti e di pensare, letteralmente: questa la lascio qui per il prossimo fotografo che passerà da queste parti. L’acqua del fiume, lo sappiamo, non è mai la stessa – ma, spero, ci siamo capiti.

 

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Francesco Jodice – La pratica dell’arte come poetica civile

Ricevo da Francesco Jodice e molto volentieri pubblico il testo di una sua conversazione con Carlo Sala che ben riassume anche i contenuti del suo intervento tenuto il 23 aprile scorso presso la GAMeC di Bergamo, all’interno del ciclo di incontri ancora in corso sul tema dei rapporti tra fotografia e arte. Nel bello spazio gentilmente prestato da Confindustria Bergamo, Francesco è stato come sempre molto generoso e ricco di stimoli per l’attento pubblico che assisteva, illustrando con chiarezza il senso del suo lavoro da molti punti di vista, dimostrandone l’impegno, la valenza politica e di ricerca, l’attenzione estetica e la complessa multidisciplinarietà.

Francesco Jodice, What We Want, Baikonur, T56, 2008

Francesco Jodice, What We Want, Baikonur, T56, 2008

 

Investigazioni private
Una conversazione con Francesco Jodice
di Carlo Sala

Hai iniziato il tuo workshop a Pieve di Soligo citando uno dei massimi scrittori contemporanei, Jonathan Franzen, che si è profondamente interrogato sulle sorti dell’Occidente. Pensi che stiamo attraversando una crisi culturale e sociale che va ben oltre quella finanziaria di cui tanto si parla?

Proverei a scomporre la locuzione “crisi dell’occidente”: come sappiamo la crisi economica mondiale è iniziata nel 2008 e ha avuto origine negli Stati Uniti con la crisi dei Subprime. Tra i principali fattori della crisi vi furono gli alti prezzi delle materie prime, una crisi alimentare mondiale, un’elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo, una crisi del credito ed un crollo di fiducia nei mercati. Però fin dagli inizi del fenomeno molti analisti ritennero che non si trattasse di una vera crisi, poiché il termine crisi definisce periodo temporale durante il quale per almeno due trimestri consecutivi si ha un arretramento economico, cioè una riduzione del PIL, seguita da una rapida ripresa. Allora una crisi è un modello statistico di durata circoscritta e definita da una “curva di andamento” riconoscibile. A distanza di sei anni dal fallimento della Lehman Brothers mi sembra chiaro che la situazione che noi viviamo non è una crisi ma una nuova era glaciale, un assetto del tutto nuovo al quale col tempo ci adatteremo. Per quanto riguarda la questione occidentale mi sovviene che già molti anni fa Baumann aveva detto che presto i governi dell’occidente avrebbero dovuto affrontare il problema e dire ai popoli che il sistema del Welfare aveva fallito e non era più sostenibile. Questa invece è una crisi: una crisi di modello e di valori etico-culturali.

In tema di crisi e fotografia, un famoso esempio del passato è stata la campagna del 1937 promossa dal governo americano attraverso la Farm Security Administration per raccogliere delle informazioni sui problemi che investivano il settore agricolo. In quell’occasione venne affidato ad alcuni fotografi il compito di creare uno “stato di fatto” sulla situazione del paese allo scopo di sensibilizzare una parte cospicua della popolazione realizzando anche una politica del consenso.
Tu parli di “poetica civile”, quale ruolo possono giocare le arti visive rispetto alla situazione che stiamo vivendo? Come devono porsi gli autori contemporanei per evitare la retorica che ha caratterizzato tante indagini similari?

Molti ruoli ma è necessario intendersi e convenire su quali siano oggi “le arti” e quali i loro ruoli. Nella grande crisi americana la FSA utilizzò la fotografia e i suoi autori non come meri documentatori ma come dispositivi narrativi meta-progettuali, in grado di mostrare ai pianificatori e ai politici alcune linee di sviluppo alternative dei mutati paesaggi sociali americani. Io credo che la fotografia non abbia più quel ruolo, ne ha di nuovi e importanti ma non più quello. Nelle arti visive altri apparati narrativi hanno ora il ruolo di media condivisi (il cinema, i videogiochi, le web series, i virali sulla rete, youtube, etc). Sono altre le dinamiche dell’arte visiva che si fondono con la nostre concezioni di arte pubblica e di poetica civile.

Sono conscio che sei molto distante dall’attribuire alla fotografia un ruolo pedagogico, ma di certo uno dei messaggi che si evincono dalla tua ricerca è di utilizzare questo mezzo per innescare nel fruitore dubbi e spunti critici. Me ne vuoi parlare?

Non ho mai amato la fotografia dogmatica, pedagogica e con la presunzione di esaurire i discorsi. Credo che storicamente l’attitudine a pensare la fotografia come un modello esaustivo di narrazione delle cose del mondo sia una prerogativa di fotografi animati e sostenuti da buoni sentimenti più che da rigorosi processi di intellettualizzazione. Al contrario penso sempre alla fotografia come un luogo che non didascalizza le questioni osservate ma piuttosto le rende ancora più complesse. Per me la fotografia non contiene risposte ma piuttosto è il luogo nel quale impariamo a formulare bene le domande, uno spazio che, una volta attraversato, ci aiuti ad allestire dubbi ben strutturati o domande ben costruite.

Francesco Jodice, What We Want, Dubai, R36, 2009

Francesco Jodice, What We Want, Dubai, R36, 2009

Durante il secolo scorso i grandi avvenimenti e le mutazioni sono stati scanditi dalla fotografia attraverso un dialogo diretto e immediato con la realtà secondo un approccio che oggi appare anacronistico.
Una caratteristica presente nel tuo lavoro è che lo scatto finale – per quanto attento alla tecnica – deve necessariamente essere il risultato finale di un processo basato su una molteplicità di interrogativi e riflessioni. Mi racconti il tuo modus operandi nello sviluppo di un determinato filone di ricerca?

Quando inizio un progetto, ad esempio perché ho ricevuto un incarico site-specific, mi disinteresso quasi completamente della geografia del luogo e della sua fisicità mentre inizio uno scandaglio e una diagnostica dei fenomeni politici, culturali, sociali, economici e religiosi che lo hanno interessato con una attenzione particolare al suo “stato attuale”. Cerco degli eventi o dei fenomeni che per me sono al contempo localistici e universali. Solo quando ho individuato con chiarezza le storie che mi ossessionano inizio a fotografare ed è come se vedessi con chiarezza solo ciò che è inerente a questa casistica. Ecco perché spesso le mie fotografie sono molto elementari da un punto di vista formale ma sotto la apparente tranquillità compositiva restano in tensioni diverse i mutamenti geopolitici.

Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

Che consiglio daresti a un giovane artista che vuole intraprendere un progetto fotografico volto a indagare un tema del presente?

Come intellettuale: Leggere. Connettere. Costruire. Disfare. Ricominciare tutto daccapo.
Come artista: mettersi di traverso.

In ogni tuo lavoro si intrecciamo molteplici spunti caratterizzati sempre da una lucida visione del presente. Attualmente a cosa stai lavorando?

A La notte del Drive-in. Un progetto avviato da poco, allestisco dei drive-in veri e propri nelle piazze periferiche delle città e provoco la partecipazione mista di persone del mondo dell’arte e gente del quartiere come strumento di trasversalità tra arte e società. Ho anche due nuovi progetti fotografici sul paesaggio italiano in corso in Italia di cui uno sul Monte Bianco. Nel frattempo cerco con fatica di portare avanti il mio progetto Citytellers, ovvero una serie di film sulle mutate condizioni socio urbane in diverse geografie del pianeta. Come sai con la Galleria Michela Rizzo di Venezia stiamo da tempo lavorando alla possibilità di realizzarne uno sulla città lagunare.

Hai visitato con noi alcune zone della provincia di Treviso, e in generale conosci il nord-est, come pensi che la crisi abbia mutato questo paesaggio sociale?

In realtà non conosco a sufficienza in nord-est al punto da poter fare un paragone con altre situazioni. Sono rimasto colpito dalla “chiarezza” di questo paesaggio socio-economico, la struttura pulviscolare delle piccole aziende e come questa rete fittissima di opifici e imprese si intersechi in modo inestricabile con la cultura familiare ed una serie di valori culturali, religiosi ed economici che hanno radici antichissime. Ho sentito anche il senso di smarrimento e paura per questa impossibilità di perpetrare quel modello e lo smarrimento per l’incapacità di capire i nuovi modelli economici, i nuovi mercati. Credo che tutto ciò abbia cambiato questo paesaggio proprio perché non gli permette di cambiare: la crisi economica, gravissima, ha congelato il rinnovamento non solo culturale ma anche fisico del territorio, potremmo girare un film e dire che è ambientato negli anni novanta senza temere smentita né dai luoghi architettonici né dalle abitudini quotidiane delle comunità.

Sia con Multiplicity che perseguendo il tuo progetto What We Want, hai indagato varie comunità del mondo. C’è un luogo che ti ha particolarmente colpito ed in cui hai visto una scintilla per il futuro?

I luoghi che ho indagato da solo o nei favolosi anni del collettivo Multiplicity oggi sono dei fossili. A loro tempo tutti sono stati dei paesaggi innovativi ma proprio perché sono diventati dei modelli imitati o contestati, adesso quei modelli sono superati, metabolizzati. Oggi ti direi che mi interessano alcune nuove città del far east, del sud africa e del golfo arabo con tutti i pro e i contro che si possono immaginare. Ma l’importante per me non è mai cosa osserviamo ma il metodo che costruiamo per osservare, non la cosa osservata quanto l’osservatorio in sé. Con Multiplicity ci definivamo “un agenzia di investigazione territoriale”. Era una definizione bellissima, per l’epoca.

 

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Giovanni Impastato e le antenne alzate

Martedì scorso 28 aprile l’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo ha ospitato un incontro con Giovanni Impastato, fratello di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978 – per una inquietante coincidenza lo stesso giorno dell’assassinio di Aldo Moro. Le vicende di queste persone sono state ben raccontate nel famoso film I cento passi di Marco Tullio Giordana, ma trovarsi di fronte a uno dei protagonisti reali è stata tutt’altra cosa.
È qui impossibile riassumere quanto Giovanni Impastato abbia detto ai nostri studenti, passando dalla narrazione dei fatti alle riflessioni su questi e collegandone la storia del tempo con quanto succede ai giorni nostri, con un discorso e un successivo intenso scambio di ragionamenti col pubblico che assisteva che è sempre stato molto chiaro e diretto. Un esempio di grande forza e significato, dimostrato con pacatezza e sincerità.

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Oltre all’emozione di sentir narrare in prima persona vicende tanto importanti, questo incontro mi ha confermato quanto la mattina avevo detto ai miei studenti: che è impossibile e sbagliato pensare che ogni attività, quale che sia, ma qui in particolare l’attività artistica, possa prescindere dalla coscienza che quanto facciamo sia legato al nostro tempo e alla nostra società. E che dunque la nostra attività sia sempre in qualche modo anche politica.

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La parola politica suscita oggi grandi difficoltà, per il suo essersi quasi identificata con il concetto di miserabile appartenenza partitica e per il degrado al quale è stata sottoposta nel tempo da una classe di amministratori mediocri quando non corrotti. Bisognerebbe però riconsiderarne l’altezza e l’immensità del significato e del ruolo, e ritrovarne, soprattutto nella pratica quotidiana, il senso di impegno e di coscienza che a essa appartiene – e dunque anche nell’attività artistica, che spesso è vista invece come ludica, scollegata dal tempo, consolatoria e così via.

Non voglio certo dire che la nostra attività debba per forza essere direttamente politica – vi sono certo espressioni d’arte fortemente impegnate e chiaramente orientate, mentre altri artisti seguono vie più sottili quando non esoteriche, assolutamente legittime. Quello che ho cercato di dire ai miei studenti è un’altra cosa, e cioè che bisogna essere coscienti del proprio ruolo e che questo comporta sempre delle responsabilità, tra le quali quella del senso di quello che facciamo rispetto al nostro tempo e alla nostra società, che è appunto a mio parere anche una responsabilità politica, civile. E dovremmo sempre essere anche orgogliosi di questo. Le antenne sempre alzate degli artisti captano e decodificano messaggi a volte misteriosi, e li trasmettono al mondo che sta loro intorno, in un flusso infinito di ricevere, e di dare. Dare.

 

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