Quanta resistenza fai per non esserlo

Il giorno dopo l’intervento di Vittore Fossati del quale ho pubblicato ieri un suo testo ho ricevuto questa splendida email da Francesco Pedrini, collega in Accademia a Bergamo che, oltre che bravo artista, è persona gentile e intelligente. Ho pensato subito che sarebbe stato bello pubblicarla a ruota del testo di Vittore e Francesco ha acconsentito. Credo che in questo testo vi sia tutta l’emozione e la profondità che sono fluttuate nell’aria quella sera.

Vittore Fossati Oviglio 1981

Vittore Fossati, Oviglio 1981

 

Da: francesco pedrini <info@francescopedrini.me>
Data: 08 maggio 2015 11.16.01 GMT+02.00
A: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Oggetto: Vittore conferenza

Ciao Luca, scrivo per ringraziarti.
Sono anni che ascolto interventi e conferenze ma ieri è stata proprio una esperienza di profondità.
Vittore tra il serio e il faceto, ha punto e punzecchiato, ma direi pure travolto i miei stati d’animo nei confronti dell’essere artista. Ho subito una serie di leve emozionali spiazzanti.
Ti prego di non credere che io sia sprovveduto, o che sia una fascinazione da “groupie”, ma sono abituato a portare al punto critico ogni discorso e con Vittore ne ho fatto forte esercizio.
Per assurdo non è stato un incontro sulla fotografia ma sul processo mentale che ti sfinisce prima di scattare la fotografia. Chiunque ci abbia giocato la vita questo lo sa. Anche il ritmo della conferenza è stato questo, centinaia di sollecitazioni stupende, vaghe, poi precise e poi click, lo scatto. Sembrava di essere nella sua testa durante un progetto artistico. Ebbene sì, la fotografia è cosa mentale quando hai gli strumenti…
Vittore ieri si è esposto enormemente, si è presentato armato di mille dispositivi teorici ma li ha deposti e si è messo a nudo, coscientemente e forse tatticamente, comunque sia ha vinto lui.
La fotografia non è questo? Ti armi di cose, strumenti, pensieri, teorie, suggestioni filosofiche e storiche; una specie di “noise” interiore e poi ti ritrovi con “solo un occhio” dentro un mirino e il mondo fuori (window) e click un istante.
Se la filosofia come l’arte ha il compito di agitare ambiti ieri è accaduto.
Come non emozionarsi quando Vittore dice che fa fotografie per riconoscenza a Ghirri, il quale una sera negli anni settanta lo ha chiamato dalla lattaia per invitarlo ad una mostra e lui non aveva nemmeno finito il suo primo rullino a colori. Chissà poi se la lattaia aveva le tette grosse come la tabaccaia di Fellini. Ma comunque, trovare un artista che si fa canale per passare informazioni, non mettendosi mai in prima persona persino quando mostra le proprie fotografie è disincanto, forse tecnica comunicativa, ma in realtà è semplicemente amore disinteressato per ciò che fai. Cosa dimostra che sei veramente un artista? Quanta resistenza fai per non esserlo.
Vittore è un perito aeronautico, difatti fotografa arcobaleni, Ghirri era un geometra e infatti fotografava gli Atlanti. Tu Luca sei il ghiaccio, si vede e si sente, ma il ghiaccio è acqua, conduttore per eccellenza.
Avrei voluto fargli mille domande ma odio chi fa domande alle conferenze, perché ad un vulcano che erutta non si fanno domande, ci si siede, si guarda, si ascolta e si vacilla possibilmente senza troppi click…

ciao, un forte abbraccio

francesco pedrini

 

Share

Vittore Fossati – L’otto rovesciato

Ho ricevuto questo testo da Vittore Fossati pochi giorni fa, dopo il suo intervento a Bergamo negli incontri GAMeC sui rapporti tra fotografia e arte. Fossati nell’incontro è stato assolutamente generoso, perché ha incrociato una forte componente analitica, saggistica, con lo svelamento profondo ed emozionante dei propri percorsi mentali mentre realizza le sue fotografie. Non mi so spiegare del tutto come gli sia stato possibile tenere così bene insieme questi due aspetti così diversi, ma credo che questo testo in qualche modo lo possa fare intuire.
Il testo che potete leggere qui sotto è la revisione degli appunti di un discorso da lui tenuto in occasione della giornata di studio Come pensare per immagini? Luigi Ghirri e la fotografia, svoltosi alla British School at Rome il 9 ottobre 2013 – ma è anche vicino, per intensità e contenuti, alla lezione che ha appena tenuto a Bergamo.

Sono particolarmente orgoglioso di proporvelo in questo blog, per varie ragioni: la prima è che è molto raro che un autore ci apra, diciamo così, le porte sui suoi meccanismi più profondi e sui pensieri che intervengono mentre lavora. La seconda è che Vittore Fossati è una figura tanto grande quanto schiva nel panorama della fotografia italiana. Tra me e me lo definisco un minimizzatore: del suo ruolo e del suo lavoro – mentre anche solo questo testo ci dimostra perfettamente il contrario. La terza ragione sta nella rarità della sua presenza nel web, così come della rarità in generale di suoi testi (cosa quest’ultima che lo accumuna purtroppo a molti altri). Ve ne sarebbero altre, di ragioni: ma mi fermo qui e vi lascio a questo eccezionale contributo.

 

Vittore Fossati

 

L’otto rovesciato
Appunti per un’idea di infinito nell’opera e nella vita di Luigi e Paola Ghirri

La parola infinito compare molte volte come concetto, titolo, evocazione poetica, a volte anche nel lavoro quotidiano di Luigi e Paola Ghirri.
Un’opera di Ghirri s’intitola Infinito ma poi, ad esempio, avevano scelto il nome di infinito per il loro studio di grafica e fotografia negli anni in cui hanno abitato a Formigine.
Tra l’altro, i simboli della messa a fuoco usati come fregio per il biglietto da visita sono stati riprodotti anche nel libro, che rende loro omaggio: Fin dove può arrivare l’infinito che deve il titolo a quello del testo di Giorgio Messori – scritto del 1992 -, originariamente pubblicato nel primo catalogo realizzato dopo la morte di Ghirri e cioè Vista con camera, curato da Paola e da Ennery Taramelli la quale, peraltro, ha intitolato un suo saggio Mondi infiniti di Luigi Ghirri.
Il mio contributo inizia dunque così e continuerà per una decina di minuti fra ricordi e divagazioni.

L’otto rovesciato
Paola mi aveva raccontato che durante le esequie di Luigi nella chiesetta di Roncocesi lei era seduta in un banco che portava un numero, l’otto, scritto su una targhetta. Durante la cerimonia questa targhetta, alla quale evidentemente già mancava uno dei due chiodini che la fissavano, era ruotata di 90° finendo per indicare così un otto rovesciato, il simbolo dell’infinito.
Paola credeva molto a questi accadimenti, al manifestarsi di queste coincidenze.
Comunque, fatto sta che Paola è mancata il giorno 8 e la sorella, interpretando quello che forse sarebbe stato un suo desiderio, volle che il funerale avvenisse l’11 novembre e quindi l’11/11/2011.
11-11-11. Un numero palindromo che, appunto, può essere letto in un senso o nell’altro. Né capo né coda, né inizio né fine che, proprio come il nastro di Moebius, può essere letto o, per meglio dire percorso all’infinito.
Come si ricorderà, nel luglio 2011 un incendio sviluppatosi nel sottotetto aveva devastato la casa di Roncocesi. Paola si era trasferita in un’altra abitazione e poi, dopo circa quattro mesi, moriva.

Dicembre 2011
Daniele De Lonti, Gianni Leone, io e Beppe Sebaste, temendo una radicale trasformazione (poi per fortuna non è stato così), siamo entrati nella casa di cui eravamo stati tante volte ospiti per raccontare il nostro commosso legame con gli oggetti e le memorie di un luogo, l’ultima casa abitata da  Luigi e Paola.
Muratori e carpentieri avevano iniziato il lavoro di ripristino. Mobili, libri, dischi in gran parte ammassati nelle stanze inferiori. Alle pareti umidità e muffa provocata dall’acqua per lo spegnimento dell’incendio. Freddo. Buio. I ponteggi all’esterno impedivano l’apertura degli scuri. Molte foto sono state fatte con l’ausilio di una lampada che ci portavamo dietro da una stanza all’altra, da un piano all’altro.
Ovunque, come si può immaginare, disordine e polvere. Polvere. Una volta, alla radio, ho sentito il filologo Giovanni Semerano che diceva che la parola infinito deriva da quella accadica che significa polvere. Adesso ne ero ancora più convinto.
Inizio a fotografare. Sono nello studio al piano terra. Prendo una piccola scatola rossa, che spunta da una pila di libri. La poso sull’impolverato tavolo color verde penicillina, al quale Paola era solita sedersi per lavorare all’impaginazione dei libri. Disfo il nodo di stoffa nera che la teneva chiusa. Il nastro cadendo sul tavolo forma, con la sua ombra, la figura dell’otto. Paola, che compare nella prima foto della scatola, sembra guardarlo. Faccio questa fotografia tra la sorpresa e il turbamento.

Vittore Fossati, Nastro

Mi sposto nel corridoio. Sullo scaffale vedo un altro otto. Questa volta si tratta di un numero dipinto su una piastrella di ceramica, quelle dei numeri civici. Accanto trovo una cartolina che, muovendola, e a seconda di come la si tiene inclinata, mostra tre fasi di un’eclissi di sole. La fotografo nelle tre posizioni e più che un’eclissi adesso mi sembra il triste racconto di uno spegnimento.

Vittore Fossati, eclissi 1

Vittore Fossati, eclissi 2

Vittore Fossati, eclissi 3

 

L’infinito
La parola fa venire subito in mente il canto più noto di Leopardi. In questo canto l’infinito viene detto tramite continue comparazioni tra il vicino e il lontano, tra ciò che ci è prossimo, che appartiene al finito, alla finitudine della condizione umana e ciò che è distante, che sta all’infinito, e che appartiene all’orizzonte dell’incommensurabile.
Dunque, Il questo e il quello:

[…] a questa siepe…
… interminati spazi di là da quella
E come il vento odo stormire
Tra queste piante
Io quello infinito silenzio
A questa voce vo comparando…

Ora mostro la copertina di un libro di racconti di Antonio Prete (pubblicato nel 2000) il quale, tra l’altro, si è anche molto occupato di Leopardi, scrivendo bellissimi saggi.

GHIRRI COPERTINA

Il racconto che apre il volume è dedicato alla figura di Giuseppe da Copertino, un frate vissuto nel ‘600, famoso per i suoi “voli”. Le cronache raccontano che durante l’estasi si sollevasse da terra. E insomma, per farla breve, per le sue virtù e devozione venne ammesso senza esami al sacerdozio.
Ma chissà perché proprio questa foto per questa copertina.
L’avevo chiesto a Paola e mi rispose che era del tutto casuale, si era trattato, come in molti casi, di una scelta redazionale.
Copertina / Copertino (un gioco di parole che sarebbe piaciuto a Ghirri)
Paola, a proposito di Copertino, mi disse che quando, durante un viaggio in Puglia Luigi si imbattè nel nome di questa località e lesse anche l’indicazione di un santuario dedicato a questo san Giuseppe esclamò: «ma allora è vero… allora esiste per davvero» e raccontò a Paola che sua madre, quando Luigi frequentava le elementari, gli aveva messo in un quaderno un’immaginetta di questo santo perché, almeno ancora in quegli anni, era credenza che san Giuseppe da Copertino proteggesse i bambini che non andavano troppo bene a scuola. Paola aveva detto «quelli un po’ asini».
Dunque, il racconto di Prete sulla visionarietà di questo mistico s’intitola Portenti di fra Giuseppe da Copertino ed inizia così:
«Giuseppe Boccaperta lo chiamavano, perché era sempre incantato, sempre con la bocca spalancata per la meraviglia, che cosa vedi? gli chiedevano, che cosa vedi, Giuseppe?…»
Noi invece adesso potremmo chiederci, a proposito di questa fotografia, cosa vedeva Luigi.
La foto mostra un gioco per bambini, un’altalena come tante su una spiaggia della riviera adriatica. È una foto molto semplice, apparentemente forse anche banale. Però Luigi qualcosa aveva intravisto e curando la distanza di ripresa fa in modo che gli anelli che pendono dal braccio sinistro della struttura sfiorino, indichino, la prossimità del finito, la linea che separa la terra dal mare, mentre quelli che scendono dall’altro braccio, tocchino la linea dell’orizzonte che separa il mare dal cielo. Ghirri sostituisce la siepe leopardiana con un’altalena che appunto, ci suggerisce – visivamente – l’altalenanza tra il questo e il quello, tra ciò che sembra poter appartenere al vicino, alla nostra possibilità di conoscenza sensibile e ciò che invece rimarrà sempre lontano – allontanato all’infinito – su un vago orizzonte.

Ancora una fotografia di Ghirri (Trani, 1982)

Luigi Ghirri Trani 1982

Peter Handke nel suo libro Nei colori del giorno, dedicato all’esplorazione di uno dei luoghi della pittura di Cézanne, la montagna Sainte-Victoire, racconta che, a un certo punto, scendendo da un sentiero, lancia una mela per aria, la riagguanta e dice di aver fatto questo per legarsi al paesaggio.
La foto mostra un’anfora collocata come decoro sulla balaustra di un tratto del lungomare di Trani. Al centro della foto non c’è l’anfora ma la linea mediana tra l’anfora e l’ombra dei rami di un albero; ombra analoga per forma a quella dell’anfora. Ghirri si lega al paesaggio in questo modo, unisce il questo al quello, adottando inoltre un punto di ripresa che gli permette di far collimare, di sovrapporre la linea obliqua del profilo della nuvola con quella che separa – per il diverso colore – la superficie dell’anfora: è una sorta di trompe-l’oeil che attira  lo sguardo verso una lontananza infinita.
Molte foto di Ghirri ci mostrano quello che c’è, quello che si vede più qualcos’altro.
Edward Weston, in una pagina del suo diario annotava: «ho fatto la fotografia di un tronco di una palma: è la fotografia di un tronco d’albero più qualcos’altro. Non so cosa darei perché qualcuno mi dicesse cos’è questo qualcos’altro…».

Novembre 2010
Io e Paola siamo stati a Bari per la presentazione del libro di Gianni Leone e stiamo tornando a Bologna con l’aereo.
Le nuvole sono sotto di noi. Adesso per guardare il cielo, le nuvole, dobbiamo guardare in basso e non in alto. Il punto di vista si è rovesciato.
Mi faccio dare i suoi occhiali, li appoggio al finestrino e faccio una foto.

Vittore Fossati, Occhiali Paola

Gliela mostro nel display e le chiedo: «chissà cosa può unire la parola otto alla parola ottica
Paola guarda la foto. Sorride.

 

 

Share

Luca Panaro – La fotografia tra ostracismo e vanità

Il 30 aprile scorso è stata la volta di Luca Panaro nella serie di incontri organizzati con la GAMeC di Bergamo. Panaro è andato con estrema chiarezza dritto al punto, proponendo sia esperienze personali che riflessioni più ampie riguardo alle persistenti difficoltà del rapporto tra mondo dell’arte e fotografia, individuando da un lato i ritardi culturali e le approssimazioni degli addetti ai lavori riguardo alla fotografia, e dall’altro evidenziando, con a tratti brutale evidenza, le ingenuità dell’approccio alla questione da parte di tanti fotografi – tema, quest’ultimo, del quale credo non si discuta ancora abbastanza.
Gli appunti che ci vengono proposti riassumono i punti sui quali si è centrato il suo ampio discorso, proponendo anche alcuni esempi di lavori che pur essendo molto orientati artisticamente trovano tuttavia, per sua diretta esperienza, ancora difficoltà ad essere accettati, ad esempio, dalle riviste d’arte.
Aggiungo di avere molto apprezzato il suo invito finale – rivolto soprattutto ai giovani in risposta ad alcune domande – a prendersi dei rischi, a procedere sperimentalmente evitando terreni troppo sicuri (terreni tra l’altro già fin troppo solidamente occupati) e ad accettare anche la possibilità del fallimento. Forse non ricordiamo mai abbastanza la ricchezza dell’esperienza del fallimento.

WP_20150430_007

 

La fotografia tra ostracismo e vanità

Da una parte prendo atto dell’esclusione dalla comunità artistica di quegli autori “colpevoli” di utilizzare il mezzo fotografico in modo troppo puro. Dall’altra noto la crescente ambizione dei fotografi di essere parte del sistema dell’arte a tutti i costi. Tra questi due eccessi forse risiede la complessità della fotografia italiana, che oggi tenta faticosamente di emergere dalla palude dell’indistinto.

Ostracismo: ovvero quando il mondo dell’arte mette al bando la fotografia
Dal 2001 scrivo su riviste d’arte. Spesso propongo di recensire mostre di artisti che lavorano con la fotografia. Questo è quello che mi sento rispondere ormai da quindici anni: «Ho letto il progetto e devo dirti che è veramente molto interessante; purtroppo però non saprei come contestualizzarlo all’interno della rivista visto che è materia prettamente fotografica». Perché le riviste d’arte non si occupano di fotografia? Perché il sistema dell’arte è ancora in imbarazzo di fronte ad opere puramente fotografiche?

Vanità: ovvero quando il fotografo si compiace delle proprie capacità tecniche
Nel 1859 per Charles Baudelaire la fotografia era la palestra dei pittori mancati. E oggi? Visitando gli stand di alcune fiere, dopo 156 anni, verrebbe da pensare che Baudelaire non aveva tutti i torti. E non è solo colpa degli “autori”, piuttosto di galleristi e collezionisti che li sostengono, digiuni di fotografia a tal punto da apprezzare soltanto le immagini che più si avvicinano alla loro vera passione, la pittura. E così che appese alle pareti delle più disparate gallerie vediamo fotografie dalle suggestioni varie, spesso con richiami al romanticismo, al realismo, all’impressionismo… mai alle specificità della fotografia!

 

Quali altre prospettive per la fotografia?

Olivo Barbieri, Alps - Geographies and People #2, 2012

Olivo Barbieri, Alps – Geographies and People #2, 2012

La sparizione del punto di vista
Osservando la ricerca più recente di Olivo Barbieri notiamo la sparizione del punto di vista, l’aggiramento delle regole della prospettiva, la ricerca di un “punto-di-essere” che si oppone al “punto-di-vista”, come sostiene Derrick de Kerckhove, cioè qualcosa di più fluido, che va oltre rispetto a ciò che vedo. Oggi infatti possiamo “sentire” oltre ciò che vediamo, possiamo sviluppare più che vedere. Questo è il grande salto in avanti che ci propongono le nuove tecnologie e i loro linguaggi. Quello che nelle immagini fotografiche di Barbieri è segnato dal «ritorno al disegno, alla forma scarnificata delle cose, allo schizzo che immagina il progetto». Come è possibile apprezzare nelle immagini più recenti della decennale serie fotografica site specific_. Anche in Alps Geographies and People (2012), Barbieri ci offre una visione, come lui stesso dice, vista dagli scalatori: «cime, precipizi, crepacci, miraggi e allucinazioni nelle geografie. In queste immagini è tutto vero. Le proporzioni e le forme sono reali. Anche le persone  e la posizione in cui si trovano sono reali». Eppure ci vengono mostrate come se fossero “solid color”, cartine mute della geografia che permettono di rappresentare sinteticamente  una forma. In questo modo l’artista retrocedere a una forma primigenia delle montagne, che si mostrano piatte, prive di riferimenti prospettici.

 

Fabio Sandri, Io, 2003

Fabio Sandri, Io, 2003

Il materiale fotografico
Nell’arte di Fabio Sandri invece si riscontra un modo diverso di intendere la fotografia. Nell’opera intitolata Io (2003) il corpo dell’artista è registrato sulla carta con la tecnica del Fotogramma, cioè proiettando sul materiale fotosensibile il volume tramite una luce posta allo zenit. L’alone chiaro che si scorge è il profilo della schiena e della testa, le macchie più chiare al centro sono i piedi che toccano la superficie della carta. È una rappresentazione della figura umana anomala, zenitale, “precipitata”, che l’occhio non avrebbe mai potuto registrare. I bianchi corrispondono al contatto del corpo con la carta; i neri mostrano l’assenza di contatto quindi l’esposizione totale alla luce; i grigi invece indicano le rifrazioni dello spazio circostante, che consente alla luce di entrare anche dentro l’ombra. È la combinazione di grigi a dare l’idea di volume e non di silhouette, di presenza plastico-spaziale. Questo aspetto distingue sostanzialmente il lavoro di Sandri dagli esperimenti off-camera già noti alla storia della fotografia. Quest’ultimi, anche quando suggeriscono una tridimensionalità, sono riferiti solitamente all’oggetto, in Sandri è la verticalità dello spazio ad essere indagata, rigorosamente in scala 1:1.

 

Carlo Zanni, The Fifth Day, 2009

Carlo Zanni, The Fifth Day, 2009

I flussi di dati
Dall’inizio degli anni Duemila la pratica artistica di Carlo Zanni prevede l’uso di dati prelevati da Internet per creare esperienze di coscienza sociale basate sul trascorrere del tempo. Nell’opera intitolata The Fifth Day (2009), l’artista mostra dieci fotografie da lui realizzate in Egitto che descrivono una corsa in taxi; disposte in sequenza, cambiano ogni volta che si ricarica la pagina web da cui sono fruibili, oppure quando i dati a cui sono collegate vengono modificati. Ogni fotografia è dinamica (anche se statica in chi la guarda), ovvero utilizza dati provenienti da server di terze parti, alcuni dei quali derivati dall’utente stesso e dal suo collegamento a Internet del momento (come il nome della città scritto sull’insegna di un negozio: “Rome” se collegati da Roma, “Beijing” da Pechino, “Redmond” dallo stato di Washington, “Temperley” dall’Argentina). In altri casi la dinamicità dell’immagine è data dagli ultimi collegamenti ricevuti: i colori degli abiti appesi in un mercato di Alessandria d’Egitto fotografato dal guard rail mutano in base agli indirizzi IP degli ultimi dieci utenti. L’operazione si ripete per ciascuna immagine, ottenendo un’opera che risente degli strumenti utilizzati per crearla, cioè effimera, soprattutto quando i dati che l’opera utilizza come materia prima non sono sotto il diretto controllo dell’artista. La maggior parte delle opere di Zanni smettono di funzionare a distanza di tempo dalla loro realizzazione, immergendosi così nella realtà, subendo la stessa sorte di un oggetto di uso comune. Questa precarietà dell’opera, se accettata (non solo dall’artista), diviene uno degli elementi caratterizzanti la ricerca contemporanea.

Conclusione

La cura ai “mali” della fotografia (ostracismo e vanità), punto di partenza di questa breve riflessione, trovano la giusta cura nella scuola, nella formazione, nell’educazione all’immagine, nella costruzione di quella consapevolezza critica necessaria a cogliere le peculiarità del mezzo, senza piegarlo, come spesso accade, al gusto di un’altra epoca. Questo porta alla creazione di nuovi canali di distribuzione per l’arte, aggiornati al nostro tempo, capaci di veicolare soprattutto le idee di un autore, non solo i loro manufatti. Come dice Brian Eno: nel futuro non si compreranno i lavori di un artista; si comprerà un software capace di ricreare il suo modo di vedere.

 

Share

Francesco Jodice – La pratica dell’arte come poetica civile

Ricevo da Francesco Jodice e molto volentieri pubblico il testo di una sua conversazione con Carlo Sala che ben riassume anche i contenuti del suo intervento tenuto il 23 aprile scorso presso la GAMeC di Bergamo, all’interno del ciclo di incontri ancora in corso sul tema dei rapporti tra fotografia e arte. Nel bello spazio gentilmente prestato da Confindustria Bergamo, Francesco è stato come sempre molto generoso e ricco di stimoli per l’attento pubblico che assisteva, illustrando con chiarezza il senso del suo lavoro da molti punti di vista, dimostrandone l’impegno, la valenza politica e di ricerca, l’attenzione estetica e la complessa multidisciplinarietà.

Francesco Jodice, What We Want, Baikonur, T56, 2008

Francesco Jodice, What We Want, Baikonur, T56, 2008

 

Investigazioni private
Una conversazione con Francesco Jodice
di Carlo Sala

Hai iniziato il tuo workshop a Pieve di Soligo citando uno dei massimi scrittori contemporanei, Jonathan Franzen, che si è profondamente interrogato sulle sorti dell’Occidente. Pensi che stiamo attraversando una crisi culturale e sociale che va ben oltre quella finanziaria di cui tanto si parla?

Proverei a scomporre la locuzione “crisi dell’occidente”: come sappiamo la crisi economica mondiale è iniziata nel 2008 e ha avuto origine negli Stati Uniti con la crisi dei Subprime. Tra i principali fattori della crisi vi furono gli alti prezzi delle materie prime, una crisi alimentare mondiale, un’elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo, una crisi del credito ed un crollo di fiducia nei mercati. Però fin dagli inizi del fenomeno molti analisti ritennero che non si trattasse di una vera crisi, poiché il termine crisi definisce periodo temporale durante il quale per almeno due trimestri consecutivi si ha un arretramento economico, cioè una riduzione del PIL, seguita da una rapida ripresa. Allora una crisi è un modello statistico di durata circoscritta e definita da una “curva di andamento” riconoscibile. A distanza di sei anni dal fallimento della Lehman Brothers mi sembra chiaro che la situazione che noi viviamo non è una crisi ma una nuova era glaciale, un assetto del tutto nuovo al quale col tempo ci adatteremo. Per quanto riguarda la questione occidentale mi sovviene che già molti anni fa Baumann aveva detto che presto i governi dell’occidente avrebbero dovuto affrontare il problema e dire ai popoli che il sistema del Welfare aveva fallito e non era più sostenibile. Questa invece è una crisi: una crisi di modello e di valori etico-culturali.

In tema di crisi e fotografia, un famoso esempio del passato è stata la campagna del 1937 promossa dal governo americano attraverso la Farm Security Administration per raccogliere delle informazioni sui problemi che investivano il settore agricolo. In quell’occasione venne affidato ad alcuni fotografi il compito di creare uno “stato di fatto” sulla situazione del paese allo scopo di sensibilizzare una parte cospicua della popolazione realizzando anche una politica del consenso.
Tu parli di “poetica civile”, quale ruolo possono giocare le arti visive rispetto alla situazione che stiamo vivendo? Come devono porsi gli autori contemporanei per evitare la retorica che ha caratterizzato tante indagini similari?

Molti ruoli ma è necessario intendersi e convenire su quali siano oggi “le arti” e quali i loro ruoli. Nella grande crisi americana la FSA utilizzò la fotografia e i suoi autori non come meri documentatori ma come dispositivi narrativi meta-progettuali, in grado di mostrare ai pianificatori e ai politici alcune linee di sviluppo alternative dei mutati paesaggi sociali americani. Io credo che la fotografia non abbia più quel ruolo, ne ha di nuovi e importanti ma non più quello. Nelle arti visive altri apparati narrativi hanno ora il ruolo di media condivisi (il cinema, i videogiochi, le web series, i virali sulla rete, youtube, etc). Sono altre le dinamiche dell’arte visiva che si fondono con la nostre concezioni di arte pubblica e di poetica civile.

Sono conscio che sei molto distante dall’attribuire alla fotografia un ruolo pedagogico, ma di certo uno dei messaggi che si evincono dalla tua ricerca è di utilizzare questo mezzo per innescare nel fruitore dubbi e spunti critici. Me ne vuoi parlare?

Non ho mai amato la fotografia dogmatica, pedagogica e con la presunzione di esaurire i discorsi. Credo che storicamente l’attitudine a pensare la fotografia come un modello esaustivo di narrazione delle cose del mondo sia una prerogativa di fotografi animati e sostenuti da buoni sentimenti più che da rigorosi processi di intellettualizzazione. Al contrario penso sempre alla fotografia come un luogo che non didascalizza le questioni osservate ma piuttosto le rende ancora più complesse. Per me la fotografia non contiene risposte ma piuttosto è il luogo nel quale impariamo a formulare bene le domande, uno spazio che, una volta attraversato, ci aiuti ad allestire dubbi ben strutturati o domande ben costruite.

Francesco Jodice, What We Want, Dubai, R36, 2009

Francesco Jodice, What We Want, Dubai, R36, 2009

Durante il secolo scorso i grandi avvenimenti e le mutazioni sono stati scanditi dalla fotografia attraverso un dialogo diretto e immediato con la realtà secondo un approccio che oggi appare anacronistico.
Una caratteristica presente nel tuo lavoro è che lo scatto finale – per quanto attento alla tecnica – deve necessariamente essere il risultato finale di un processo basato su una molteplicità di interrogativi e riflessioni. Mi racconti il tuo modus operandi nello sviluppo di un determinato filone di ricerca?

Quando inizio un progetto, ad esempio perché ho ricevuto un incarico site-specific, mi disinteresso quasi completamente della geografia del luogo e della sua fisicità mentre inizio uno scandaglio e una diagnostica dei fenomeni politici, culturali, sociali, economici e religiosi che lo hanno interessato con una attenzione particolare al suo “stato attuale”. Cerco degli eventi o dei fenomeni che per me sono al contempo localistici e universali. Solo quando ho individuato con chiarezza le storie che mi ossessionano inizio a fotografare ed è come se vedessi con chiarezza solo ciò che è inerente a questa casistica. Ecco perché spesso le mie fotografie sono molto elementari da un punto di vista formale ma sotto la apparente tranquillità compositiva restano in tensioni diverse i mutamenti geopolitici.

Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

Che consiglio daresti a un giovane artista che vuole intraprendere un progetto fotografico volto a indagare un tema del presente?

Come intellettuale: Leggere. Connettere. Costruire. Disfare. Ricominciare tutto daccapo.
Come artista: mettersi di traverso.

In ogni tuo lavoro si intrecciamo molteplici spunti caratterizzati sempre da una lucida visione del presente. Attualmente a cosa stai lavorando?

A La notte del Drive-in. Un progetto avviato da poco, allestisco dei drive-in veri e propri nelle piazze periferiche delle città e provoco la partecipazione mista di persone del mondo dell’arte e gente del quartiere come strumento di trasversalità tra arte e società. Ho anche due nuovi progetti fotografici sul paesaggio italiano in corso in Italia di cui uno sul Monte Bianco. Nel frattempo cerco con fatica di portare avanti il mio progetto Citytellers, ovvero una serie di film sulle mutate condizioni socio urbane in diverse geografie del pianeta. Come sai con la Galleria Michela Rizzo di Venezia stiamo da tempo lavorando alla possibilità di realizzarne uno sulla città lagunare.

Hai visitato con noi alcune zone della provincia di Treviso, e in generale conosci il nord-est, come pensi che la crisi abbia mutato questo paesaggio sociale?

In realtà non conosco a sufficienza in nord-est al punto da poter fare un paragone con altre situazioni. Sono rimasto colpito dalla “chiarezza” di questo paesaggio socio-economico, la struttura pulviscolare delle piccole aziende e come questa rete fittissima di opifici e imprese si intersechi in modo inestricabile con la cultura familiare ed una serie di valori culturali, religiosi ed economici che hanno radici antichissime. Ho sentito anche il senso di smarrimento e paura per questa impossibilità di perpetrare quel modello e lo smarrimento per l’incapacità di capire i nuovi modelli economici, i nuovi mercati. Credo che tutto ciò abbia cambiato questo paesaggio proprio perché non gli permette di cambiare: la crisi economica, gravissima, ha congelato il rinnovamento non solo culturale ma anche fisico del territorio, potremmo girare un film e dire che è ambientato negli anni novanta senza temere smentita né dai luoghi architettonici né dalle abitudini quotidiane delle comunità.

Sia con Multiplicity che perseguendo il tuo progetto What We Want, hai indagato varie comunità del mondo. C’è un luogo che ti ha particolarmente colpito ed in cui hai visto una scintilla per il futuro?

I luoghi che ho indagato da solo o nei favolosi anni del collettivo Multiplicity oggi sono dei fossili. A loro tempo tutti sono stati dei paesaggi innovativi ma proprio perché sono diventati dei modelli imitati o contestati, adesso quei modelli sono superati, metabolizzati. Oggi ti direi che mi interessano alcune nuove città del far east, del sud africa e del golfo arabo con tutti i pro e i contro che si possono immaginare. Ma l’importante per me non è mai cosa osserviamo ma il metodo che costruiamo per osservare, non la cosa osservata quanto l’osservatorio in sé. Con Multiplicity ci definivamo “un agenzia di investigazione territoriale”. Era una definizione bellissima, per l’epoca.

 

Share

Francesco Zanot – Magma-Fotografia

Trovate qui di seguito un testo che ho ricevuto da Francesco Zanot, che all’interno del ciclo di incontri che ho organizzato in collaborazione con la GAMeC di Bergamo ha presentato le numerose questioni che la fotografia si trova oggi ad affrontare, sia per il vivacissimo dilagare del riutilizzo di immagini “trovate” sia per la rapida ridefinizione che questo sta producendo nei rapporti con il cosiddetto mondo dell’arte. Francesco ha qui scelto, più che di riassumere i contenuti della sua presentazione, di precisare meglio alcune delle risposte alle domande che gli sono state poste dal pubblico alla fine della serata. Sono certo che le troverete molto interessanti.

WP_20150416_013

 

MAGMA-FOTOGRAFIA

L’intenzionalità resta un criterio fondamentale per definire un’opera d’arte. Anche se ormai in fotografia non si può più parlare soltanto di intenzione dell’autore, ma anche di intenzione degli autori. Penso ad operazioni come quelle di Feldmann, Raad, Mikhailov, Linda Fregni Nagler, che si basano sulla logica del prelievo e della ricontestualizzazione di immagini nate per scopi diversi. Anche alla fotografia non si può evitare di concedere una seconda chance. E una terza… La fotografia non si fa più al momento dello scatto (non soltanto), ma della sua scelta.
E questa logica di valorizzazione di una fotografia che non è più frutto dell’istante, credo possa essere utile per tenere insieme queste ultime opere con quelle a cui Michael Fried si riferisce maggiormente nel suo saggio sulla fotografia (Why Photography Matters As Art As Never Before): Wall, Gursky, Demand, Sugimoto… Anche Ghirri si contrapponeva alla logica del momento decisivo, sostenendo che la fotografia non gli interessasse per la sua capacità di catturare la devianza, le invisibili combinazioni che accadono in un istante, ma tutto ciò che permane e che poi si può andare a riscoprire dal vero, attraverso l’esperienza diretta. Probabilmente una delle ragioni che concede alla fotografia contemporanea di riscontrare tanto interesse nel mondo dell’arte è proprio questa: non si limita alla celebrazione dell’istante, ma approfondisce tempi diversi.

Jeff Wall, The Destryed Room, 1978

Jeff Wall, The Destryed Room, 1978

Perché la fotografia assume sempre più importanza all’interno della produzione e del dibattito dell’arte contemporanea?

Innanzitutto la fotografia si adatta perfettamente alla situazione attuale della realtà che mescola sempre più elementi naturali e costruiti, di finzione, rendendoli indistinguibili l’uno dal’altro. In questo senso credo che svolga un ruolo fondamentale l’accelerazione allo sviluppo tecnologico seguita all’avvento del digitale, che qui è importante prendere in considerazione non tanto per ciò che riguarda lo specifico della fotografia, ma più in generale per gli effetti che ha avuto sull’ambiente, la città, il nostro corpo, eccetera. Intorno a noi ci sono interi paesaggi disegnati al computer, così come nasi, bocche, organi che provengono da questa prassi. Ad aumentare, in sostanza, non è la quantità di finzione nella realtà, ma la sua qualità, che riduce di conseguenza la nostra capacità di distinguere fra l’una e l’altra. La fotografia ha sempre avuto questa caratteristica, proponendosi come una traccia fedele della realtà, pur costituendo invece una sua interpretazione, traduzione, revisione, come qualsiasi altra forma di rappresentazione. Dal momento che l’arte costituisce uno strumento per captare e magnificare i cambiamenti che avvengono intorno a noi, è naturale che l’interesse per il funzionamento della fotografia sia cresciuto  in questo ambito e che la sua presenza sia sempre più consolidata tra gli strumenti a disposizione degli artisti.

Haris Epamininonda, Untitled-001c_g, 2007

Haris Epamininonda, Untitled-001c_g, 2007

In secondo luogo bisogna considerare la capacità di penetrazione della fotografia all’interno di altri linguaggi e dispositivi. Qualsiasi linguaggio dell’arte è permeabile e aperto alle contaminazioni. Normalmente però si tratta di una disponibilità a lasciarsi modificare da agenti esterni. La fotografia si lascia modificare, ma allo stesso tempo ha una grandissima capacità di intervenire su tutto ciò che le sta intorno. È un medium fortemente attivo. La fotografia è tutto intorno a noi, penetra nel nostro quotidiano sfruttando la porosità dei principali sistemi/dispositivi di comunicazione, informazione, propaganda e conservazione dei dati. E allo stesso modo penetra nel mondo dell’arte combinandosi ad elementi esterni, formando con le altre discipline dei legami molto stretti, somiglianti a quelli che tengono insieme gli atomi. La fotografia influenza il cinema, la pittura, la scultura, l’architettura… Sempre più. In modo subdolo. Come un virus. Ma anche in modo molto naturale. Se consideriamo lo sviluppo dell’arte in senso darwiniano, guidato dall’evoluzione naturale, allora la fotografia, grazie a questa sua caratteristica, ha molte possibilità di crescere e proliferare.

Boris Mikhailov, Luriki, 1970-80

Boris Mikhailov, Luriki, 1970-80

Sulla fotografia digitale.
L’intervento del digitale in fotografia non ha alimentato il dibattito sulla commistione tra realtà e finzione all’interno di questo linguaggio. Semplicemente lo ha risolto, evidenziando come qualsiasi fotografia costituisca una interpretazione, manipolazione e distorsione della realtà. Meglio: si è confermato una volta per tutte come il soggetto e la sua immagine siano due cose diverse e si è spostata la riflessione su altre questioni. Per esempio sulla possibilità di distinguere fra fotografia e materia, ovvero tra fotografia e oggetto. La fotografia non ha più una localizzazione. Si sposta in rete. Diventa una questione relazionale, poiché l’autore perde il controllo sul contesto di fruizione.

Luc Delahaye, US Bombing on Taliban Positions, 2001

Luc Delahaye, US Bombing on Taliban Positions, 2001

 

 

Share

Il sito utilizza cookie proprietari tecnici e consente l'installazione di cookie di terze parti. I cookie non sono utilizzati dal sito per fini di profilazione. Cliccando su OK o continuando la navigazione, l'utente accetta l'utilizzo dei cookie di terze parti. Per maggiori informazioni, è possibile consultare l'informativa completa

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi