Luca Panaro – Un’apparizione di superfici

La serata di apertura del nuovo ciclo di incontri Camera con Vista, che anche quest’anno ho organizzato in collaborazione con la GAMeC di Bergamo quale docente presso l’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo, è stato tenuta da Luca Panaro, che con il suo consueto piglio brillante e un po’ polemico ha esposto le sue idee sulle punte più recenti della ricerca fotografica, italiana ed internazionale.

Prima di dargli la parola, mi sono permesso di avvisare il pubblico (e lo faccio anche qui) che probabilmente durante questi incontri ci si sarebbe anche innervositi, perché per molti aspetti i lavori e gli artisti presentati ci avrebbero messo a disagio, mettendo in continua discussione le certezze che crediamo di avere sulla fotografia. Credo sinceramente che il nuovo secolo stia offrendo novità e difficoltà interpretative del tutto nuove, a volte scardinando – dal di dentro, ma anche accogliendo imprevisti apporti esterni – la tradizionale idea che abbiamo di fotografia. Tutto questo ciclo di incontri si è basato su questa difficoltà, sulla messa in tensione di verità che pensavamo consolidate. Devo dire che il pubblico ha reagito bene a questa prima occasione, sia seguendo con attenzione precisa le quasi due ore filate dell’intervento/lezione di Luca Panaro, sia rivolgendogli alla fine numerose domande intriganti.

Luca Panaro ha scelto di inviarmi, per questo blog, solo un breve abstract delle approfondite riflessioni del suo intervento, scelta dovuta al fatto che in questo periodo sta scrivendo intensamente proprio di questi temi – scritture delle quali speriamo di vedere presto pubblicati gli esiti. Grazie Luca!

 

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Negli ultimi anni la fotografia pare avere trovato la sua vera vocazione, ormai libera dalle sovrastrutture culturali impostegli dagli stessi fotografi. A favorire questo rinnovato status del mezzo fotografico non è soltanto il digitale, con le sue caratteristiche, ma i dispositivi che lo veicolano e i comportamenti che favoriscono. Gli Smartphones in primis che mutano il nostro modo di fotografare, con riprese sempre più da vicino, come se il mezzo fosse un’estensione del nostro braccio. Le fotocamere dei telefoni, come scanner incorporati negli arti di ognuno di noi, sono un’arma sempre carica, estraibile al bisogno, capace di registrare in modo ravvicinato ciò che ci circonda.

La forma mentis sembra quindi essere quella dello scanner, dal fuoco fisso e ravvicinato, che prende il posto della più tradizionale visione prospettica dell’orizzonte. Questa pare soppiantata da una visione “da tavolo”, capace di restituire immagini più vicine al gusto di uno studio grafico che alla composizione pittorica. La fotografia scopre la bidimensionalità che da sempre la caratterizza, per troppo tempo messa a tacere dalla ricerca della terza dimensione. Il mondo in cui viviamo è fatto di dati che si leggono sugli schermi dei nostri dispositivi, visori piatti che originano fotografie piatte, a-prospettiche.

Tra gli interpreti di questo nuovo approccio alla costruzione dell’immagine, Taisuke Koyama (Tokyo, 1978) e Maxime Guyon (Lyon, 1989). Ma anche Enrico Smerilli (Vercelli, 1978) e Matteo Cremonesi (Milano, 1986), artisti italiani che ho segnalato in questa circostanza come interpreti di questa nuova iconografia che avanza.

 

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Sembrano ingenue

Anne Brigman è stata una delle figure più significative del movimento pittorialista americano. In generale, mi pare che vi sia oggi finalmente un’attenzione crescente per questo tipo di produzioni che, a cavallo della fine dell’Ottocento e dei primi vent’anni del Novecento, per la prima volta si occuparono del problema della fotografia come arte, proponendo alcune prime importanti risposte a tale questione. Anche se oggi quel tipo di produzione a molti pare ingenuo, contiene tuttavia lezioni importanti – che potrebbero magari costringerci a chiederci quanto ingenue ci sembreranno tra un po’ di tempo tante odierne produzioni cosiddette artistiche che approfittano a mani basse delle semplicità manipolative offerte dalla tecnologia digitale…

Anne Brigman, Soul of the Blasted Pine, 1907

Anne Brigman, Soul of the Blasted Pine, 1907

Il lavoro della Brigman è interessante e importante ancora oggi per molte ragioni. Elencarle senza sapere che si parli di una donna nata nel 1869 ce la farebbe sembrare tranquillamente una delle tante artiste oggi così attive: amica di scrittori importanti (tra i quali Jack London), produce immagini controllate e manipolate nelle quali spesso utilizza sé stessa come soggetto – il più delle volte con dei nudi immersi in potenti ambienti naturali. Oggi li definiremmo autoritratti staged, e potrei ad esempio citare il lavoro, a mio parere sopravvalutato, di Francesca Woodman, con il quale mi pare vi siano molte affinità.

Il lavoro di Anne Brigman viene riconosciuto e apprezzato dalle figure più importanti della fotografia del suo tempo (basti qui citare Stieglitz, che pubblica le sue immagini in ben tre numeri di Camera Work e che ne sostiene a più riprese il lavoro con mostre e presentazioni). Brigman vince molti premi presso le più importanti istituzioni e associazioni fotografiche anche se in qualche modo il suo lavoro si pone quasi agli estremi di quello che per il suo tempo è considerato accettabile, soprattutto da una donna, mescolando influssi simbolisti, romantici e classici, nonché influenze dettate dalla giovinezza hawaiana.

Non voglio millantare una conoscenza davvero approfondita del suo lavoro, dunque mi fermo qui, invitando più che altro a riflettere su un suo ritratto at work nel suo studio, che mi ha sempre colpito per un fatto: il suo strumento di lavoro, un visore a luce solare utilizzato per il ritocco manuale dei suoi ampi negativi con matite e carboncini, mi ricorda in modo impressionante i computer portatili che oggi tutti noi utilizziamo, appunto, per ragioni simili, sentendoci così tanto moderni e originali. Pensiamoci.

Anne Brigman in studio, ca. 1915

Anne Brigman in studio, ca. 1915

 

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Nervi come archi

Exposed Project è la sigla di un ampio collettivo/network di artisti legati dall’interesse per la fotografia e per il video, nato nel 2012 come – cito dal loro Manifesto – “piattaforma di ricerca sulla trasformazione urbana a Milano e sulle le sue connessioni con Expo2015”, che sta iniziando da qualche tempo anche ad allargare il proprio tiro, portando la propria esperienza in altri contesti (si veda ad esempio la recente collaborazione col festival Cortona On The Move). Prima di proseguire nella lettura, consiglio di andare anche a dare un’occhiata al loro sito, al loro interessante Manifesto e all’ampia lista dei nomi delle persone che in vario modo vi hanno collaborato – lo consiglio perché già da questi link ci si può ben rendere conto della serietà, della professionalità e della dedizione che questo progetto ha raccolto intorno a sé. Va detto subito anche che questo è un progetto nato dal basso, del tutto autocommissionato e autofinanziato – il che ricade nelle classiche modalità dei collettivi di giovani e nelle altrettanto classiche modalità di indifferenza da parte delle istituzioni, anche di quelle preposte ad aiutare questo tipo di operazioni.

Da pochi giorni una bella mostra ne illustra i percorsi e gli esiti in un luogo prestigioso di Milano, lo Spazio Forma Meravigli, con un programma fittissimo di eventi che va ben oltre la festa d’inaugurazione. Tuttavia questo post non nasce per parlare della mostra. Da tempo volevo raccontare qui nel blog di questa esperienza – che per serietà e durata è senz’altro rara nel panorama nazionale – sia perché conosco, e stimo molto, diverse delle persone che vi sono coinvolte, sia per avere l’occasione di porre lo sguardo dietro le quinte del funzionamento di una operazione piuttosto complessa, del tentativo di gestione paritaria tra gli attori coinvolti, senza personalismi curatoriali e così via. Trovo che questo sia particolarmente interessante, anche perché quella della formazione di gruppi di lavoro è una pratica piuttosto diffusa tra i giovani, spesso generata dalla necessità di dialogo e da forme più efficienti di autosostentamento (sia economico che motivazionale, direi).

Avevo già chiesto a Exposed un contributo che riguardasse, più che la descrizione del progetto o dei lavori che contiene, una sorta di autoanalisi riguardo alle dinamiche interne, alle difficoltà di discussione, all’inevitabile diverso grado di coinvolgimento che i vari partecipanti avessero dato fino a oggi al progetto. Questo proprio per mettere a disposizione degli esempi delle modalità di discussione e di gestione dei problemi che un tale tipo di approccio richiede.
Bene, proprio in mostra a Milano sono stato felice di vedere che una piccola parete era stata ricoperta di fogli A4 contenenti le stampate di frammenti di discussioni interne via email. Un flusso frammentario – lasciatemi dire: quasi eracliteo – ma a mio parere affascinante, insomma un testo prezioso, dal quale ricavare indicazioni importanti. Exposed mi ha permesso di metterne qui a disposizione alcune parti che ho selezionato, e vi rimando alla visita in mostra per una eventuale lettura completa.
Concludo dicendo che credo che la bellezza e la forza di questo progetto risiedano da un lato nella capacità di averlo portato avanti per lungo tempo e anzi di averlo fatto crescere nel tempo (cosa rara nelle naturali attitudini giovanili) e dall’altro nell’aver coltivato il proprio lavoro con coscienza critica e valido impegno civile senza abbassarsi ad antagonismi che pur sarebbero stati facili, visto il tema. Credo sia ora di smetterla di chiamare “giovani” delle persone così adulte da comportarsi meglio dei loro padri.

On the spot - Giuseppe Fanizza, critical bike no expo,  2015

On the spot – Giuseppe Fanizza, critical bike no expo, 2015

 

Tutto sommato la cosa non è poi così male… Il problema sostanziale è che siamo alle solite. Cioè innanzitutto noi non siamo (almeno lo credo io) attivisti o un collettivo di artisti che fa un lavoro con un determinato approccio, quindi il bello sarebbe stato proprio diversificare con il nostro approccio più da laboratorio-studio. C’è un’altra cosa che poi è collegata… Sembra che tutto quello che si faccia da loro (e direte che scoperta…) debba adattarsi al loro modo di fare, a prescindere da cosa si condivide o meno del loro fare… Ma proprio a prescindere io non riesco a concepire questo modo di lavorare che, passatemelo… è decisamente piramidale.

E anzi sono d’accordo. Infatti tutto quello che ho scritto (magari ho espresso male) per me non configura NESSUNA forma di collaborazione. La decisione è se vogliamo tenere o no una voce in un tavolo di discussione in cui tutti mantengono comunque le loro posizioni, mi auspico distanti, e in cui ci si guadagni in termini di arricchimento del confronto.
Inoltre non vi nascondo, a rischio di sembrare malato, che secondo me è bene tenere sotto controllo cosa viene detto in queste sedi.
A me poi interessano davvero le dinamiche di opposizione dei movimenti.  Cioè mi piace guardare come funzionano.
Il coinvolgimento cmq è ancora da decidere.

Ci dicevamo che ci siamo stancati di raccogliere i lavori già fatti per farne le gallery su internet. Lo dimostra il fatto che l’archivio è fermo, che siamo tutti più impegnati nella progettazione, che ci piace di più che fare i blogger.
Dicevamo perciò di abbandonare la parola “archivio”.

Andrea Kunkl, Incendio grigio, 2012-2015

Andrea Kunkl, Incendio grigio, 2012-2015

Cari tutti spero che il mio tono non sia stato letto come minaccioso. Soprattutto da chi di persona non mi conosce o non mi conosce bene.
Il ruolo mio qua è quello di rompervi il cazzo fino alla morte. Ci tengo molto a questo progetto e sono molto entusiasta di come vanno le cose. Per come sono fatto io purtroppo non mi accontento mai, e questo è solo l’inizio perciò attendetevi di molto peggio.
Il trascorso anarchico mi ha lasciato questo tremendo vizio di parlare con un tono acceso. Credo fortemente che lo scontro sia una parte molto importante e detonatoria della discussione collettiva. Soprattutto il dirsi in faccia, senza paura, quello che si pensa. Perciò nervi come archi e siete liberi di odiarmi, l’importante è che continuate a spaccare e a tenere questo tiro. Le cose da fare sono tante e io nonostante la lontananza mi sbatto su questi punti detti sopra.

Trasferiamo qui una discussione sui soldi che sta disseminata in mails su altri argomenti, telefonate e assemblee in cui purtroppo non ci saranno mai tutti quanti.
Siamo tutti d’accordo che bisogna cominciare a pensare a una modalità per compensare chi lavora per Exposed.
Quello che c’è da fare è capire quale è questa modalità migliore.
Perciò magari scriviamo qui le nostre proposte, che però siano proposte non di massima o sul atteggiamento che dovremmo avere, ma proposte specifiche su come la macchina soldi deve funzionare. Cioè scriviamo già qui il criterio di ripartizione, le soglie e le percentuali indicative.
Ad esempio proposta mia:
– Come regola generale iniziamo questo nuovo corso sui progetti e le entrate da qui in avanti. Terrei fuori gli episodi passati anche perché si tratta di entrate irrisorie, o rimborsi spese.
– Entrate fino a 500 €: vanno nel fondo cassa di Exposed che sarà utilizzato per le spese di produzione di eventi e altre cose simili (dove per spese si intendono anche i compensi per prestazioni dovuti ad esterni Exposed, qualora queste prestazioni siano relative alla gestione generale e non ai singoli progetti).
– Entrate superiori ai 500:
Dal totale si stornano prima le eventuali spese relative alla produzione del progetto da cui i soldi arrivano (inclusi i compensi agli esterni ad Exposed che stanno lavorando a un determinato progetto).
Da quello che rimane il 20-40 % va in fondo cassa di Exposed. (Dove per spese si intende anche il pagamento delle prestazioni di lavoro prestate da persone esterne ad Exposed per quel particolare progetto)
Il 60-80 % va ripartito fra i responsabili del progetto e lì ci sarà da fare un’altra commisurazione interna.

Io ci vedrei al massimo un “on the spot”. Non appena ci siamo tutti, ne riparliamo e secondo me è davvero tempo di “osare” e cercare nuovi progetti, in nuove direzioni. Per me è diventata un’esigenza.
Ma ovviamente dobbiamo confrontarci.
Ecco, mi permetto di “dissentire”: questo non è proprio un lavoro “documentario”. La fotografia documentaria non prende spunto da alcun fatto preciso e adotta un preciso punto di vista e alcune “regole”. È proprio questo che mi turba: questi reportage fatti male, poco interessanti, a cui si finge di dare “rigore” e un registro cromatico. Non basta.

Sinfonie Urbane - The Cool Couple e Alessandro Sambini, You are Hear, 2014

Sinfonie Urbane – The Cool Couple e Alessandro Sambini, You are Hear, 2014

Potreste togliermi dalla newsletter?
Potreste anche evitare di usare idee altrui per sviluppare progetti?
Grazie

Vorrei aggiungermi al coro dei miei colleghi perché il tuo email mi ha davvero stupito.
Io parto dal presupposto che se una persona si sente “attaccata” o sente attaccato il proprio lavoro, fa benissimo a comunicarlo e a “difenderlo”. Ma buona regola della comunicazione è addurre motivazioni e rendere esplicito l’oggetto della discussione se l’interlocutore non lo conosce.
Non capisco a cosa ti riferisci. Io non ti conosco, non ho mai sentito parlare di te e non so quello che fai. Passo la mia giornata a lavorare, e a guadagnarmi la possibilità di fare quello in cui credo / crediamo e che mi piace. Credo di poter affermare con convinzione di avere una certa credibilità e integrità nel lavoro.
E, non vorrei deluderti, ma non esistono soggetti nuovi, soprattutto in fotografia, ma solo nuovi punti di vista.
Perciò se hai qualcosa da dire, vuoi proporci un tuo lavoro, hai critiche o semplicemente vuoi esprimere un malumore, puoi passare a trovarci o scriverci. Ma ti prego di farlo, in maniera professionale, spiegando a cosa ti riferisci.

Vi scrivo a mente fredda.
Ieri ho avuto una reazione impulsiva e che non mi si addice.
Volevo scusarmi con voi per i modi e per i toni della mail che avete ricevuto.
Ad essere onesto non avete rubato nessuna idea, e so che non lo farete; vi ho seguito fin dall’inizio su facebook e letto le newsletter, ma purtroppo non sono mai riuscito a venire agli incontri.
Razionalmente credo sia uno sfogo derivato alla mia situazione lavorativa.
Mi trovo bloccato a livello professionale come fotografo per n motivi, e rapportarmi con clienti che trattano questo mestiere come fosse un gioco senza valori e etica mi porta ad avere un livello di stress e tensione che non dovrebbe esserci. Purtroppo ieri in uno di questi momenti ho scritto per istinto quelle frasi, che onestamente non ritengo vere.
Non c’è un vero riferimento, anche perché come si fa a pensare che qualcuno rubi delle idee su un tema e un’area osservata da un intero paese? Davvero, ritengo senza senso quella frase, e mi sento anche un po’ stupido.
Le mie scuse sono oneste e sincere, e non c’è nessun sarcasmo in quello che scrivo.

Serena Porrati, Contemporary Hills, 2010 - 2012

Serena Porrati, Contemporary Hills, 2010 – 2012

Ciao ragazzi riguardo la reazione secondo me bisogna spingere molto sulla questione che è aperta senza bloccarci troppo sugli schemi di appartenenza e di ruoli che oramai sono passati, io e sono convinto che non abbiamo nessuna necessità di scrivere il nome sopra agli altri nonostante sia un progetto che abbiamo creato, ma definire dei ruoli ad alcuni implicherebbe escludere altri. Quello che mi chiedo, senza polemica ma con riflessione, è come facciamo a liberarci da questi valori fittizi di inclusione ed esclusione? Ad esempio perché in questa mail c’e la persona x e non la persona y? Perché non proviamo ad andare oltre? Non abbiamo nulla a perdere e il valore forte è la collettività e il mettere in secondo piano il proprio io e la propria ambizione personale per qualcosa di più grosso, altrimenti saremmo come tutti gli altri, solo chiacchiere e distintivo… Guardate i wu ming, chi sa chi c’è dietro ai wu ming? Questa cmq è solo una riflessione che vorrebbe promuovere un dibattito.

Purtroppo (ma noi non l’abbiamo mai richiesto) non tutti partecipano a Exposed con una identificazione totale nel progetto, ma sono interessati semplicemente a inserire il loro progetto in un contesto tematico superiore o ancora, la vedono come una vetrina per il loro progetto. E noi non rigettiamo neanche questo atteggiamento in nome della sacralità del CONTENUTO, un’altra cosa che dovrebbe salvarci. E soprattutto non c’è, né è richiesta una identificazione nel nome come per wu ming, che infatti, altro che aperto, è un gruppo tanto chiuso da essere segreto.

Riguardo i ruoli troviamo una sintesi o qualcosa che non ce la si canti troppo da soli (spero capiate quello che intendo) redazione tecnica etc.etc.
Benissimo. Quello che secondo me è importante è che sicché non abbiamo nulla da perdere vorrei tentare di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto, soprattutto sulla questione identitaria.
Sicché sono lontano saltuariamente vi romperò il cazzo con questioni filosofiche, metafisiche e di genere (io voglio andare oltre anche a questo). Cercando di creare un dibattito, anche scontri, perché io penso sia la base di Exposed.
Non è che ci dobbiamo stare tutti simpatici o andare tutti in vacanza insieme, non siamo un gruppo di amici (non solo) ma un gruppo di gente che lavora su di un tema.  È invece importante avere elementi che abbiano il coraggio di esporsi e di sbagliare.
Essendo una collettività lo scontro sarebbe fondamentale, perché dal dibattito acceso nascono le idee migliori (questo è un mio pensiero personale).
Sarà compito della redazione tecnica far si che le personalità più forti non sotterrino quelle più timide.

Secondo me non si può affidare a priori (nel senso che è molto difficile e quando ci abbiamo provato non abbiamo avuto successo) a una persona un determinato compito. Perché sarebbe come commissionare qualcosa, ma noi non abbiamo soldi per commissionare niente a nessuno.
Quindi le robe che uno decide di fare all’interno di Exposed è più facile che si stabiliscano nello svilupparsi del lavoro.

Fabrizio Vatieri, Baranza', VIdeo Still, 2015

Fabrizio Vatieri, Baranza’, VIdeo Still, 2015

Il progetto nasce in un modo, si evolve in un altro. I prossimi hanno e avranno NATURA E SVILUPPO diversi. Anche perché gli obiettivi che noi abbiamo sono diversi. O vi siete dimenticati tutte le volte che ci chiedevano “CHE FATE” e noi rispondevamo: FACCIAMO COSI ORA MA NON SAPPIAMO DOVE ANDREMO.
Perciò, se iniziamo a mettere capofila, collaborazioni e supporti mi chiedo in quale categoria debba stare IL NOME DI OGNUNO DI NOI per un progetto IDEATO, CURATO, AMMINISTRATO da OGNUNO DI NOI. Chiaramente in maniera diversa, perché ognuno ha dato il suo in base a competenze, necessità, tempo – come abbiamo sempre detto.

Io sono super d’accordo che vengano specificati dei nomi.
Mi pare stra-giusto che un progetto venga identificato come “a cura di” (poi si vede di volta in volta insomma). Per quanto mi riguarda io penso che il mio nome sia comunque presente, ed è scritto dentro la parola “Exposed” (che, in questo caso ha a che vedere con le due tre mail che ho mandato pure io, con l’aiuto nel selezionare i partecipanti, nell’allestimento della prima serata, eccetera, quindi non con cose specifiche e con sbattimenti propri e sul lungo periodo).
Quando leggerò “un progetto di Exposed” e magari non l’avrò seguito direttamente, sarò contenta, perché comunque sono sicura che la mia opinione a riguardo, degli spunti, dei suggerimenti saranno comunque ascoltati, perché faccio parte del collettivo (e viceversa quando parlerò di Exposed potrò dire “Stiamo facendo”).
Poi, secondo me le tre possibilità non sono state “date”, ma proposte ed accolte.

Dobbiamo preservare l’aspetto dell’auto-formazione e quindi che Exposed (non fraintendete quanto segue) debba essere anche un po’ un passatempo, un piacere (NO?), per me la ricerca lo è ancora. E quindi a fronte di questo, laddove non esistono i presupposti ma bisogna un attimo crearli. Va benissimo se ci prendiamo un attimo di tempo in più per capire come catalizzare la questione del cibo. O comunque per il momento non avere una scadenza in generale perché comunque non ce lo possiamo permettere…

Giulia Ticozzi, Palazzo Marino, corridoio, 2013

Giulia Ticozzi, Palazzo Marino, corridoio, 2013

Thanks for writing.
Unfortunately we can not provide for your residency in Milan.
The accommodation, both during the workshop and the production time, has to be sustained by the artists.

Il rischio grosso in cui dobbiamo evitare di cadere è il fatto (non so se voluto o no) che con questa azione cercano un poco anche di metterci uno contro l’altro. Sanno bene che ci siamo divisi compiti, responsabilità e quindi onori dei vari progetti. Noi non siamo gli ultimi arrivati e il nostro lavoro ha un valore effettivo.
Noi si cade in piedi e non abbiamo bisogno di niente e di nessuno.
Qua o si fa la rivoluzione o si muore, senza se e senza ma.

Io senza una retribuzione non mi sento più di lavorare.

 

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Nulla di nuovo

Una delle fotografie più affascinanti dell’Ottocento americano ritrae un photographic van, il carro di un fotografo, nel bel mezzo di un deserto nel Nevada. È stata realizzata nel 1867 da Timothy O’Sullivan (leggendario fotografo che si era fatto le ossa durante la Guerra di Secessione con Alexander Gardner) durante la prima di una serie di campagne di esplorazione geologica di alcune zone dell’Ovest degli Stati Uniti finanziate dal governo americano e capitanate da un geologo visionario, Clarence King. Per inciso, ricordo che King ricevette questo importantissimo incarico (la prima campagna di rilevamento governativa dopo la guerra) quando aveva ventisei anni. O’Sullivan ne aveva ventisette.

Timothy H. O'Sullivan, Desert Sand Hills near Sink of Carson, Nevada, 1867

Timothy H. O’Sullivan, Desert Sand Hills near Sink of Carson, Nevada, 1867

 

Su questa fotografia, un classico spesso presente nei libri di storia, sono state spese bellissime parole da parte di autori importanti – basti su tutti citare Robert Adams. È una immagine silenziosa e sospesa, come molte di O’Sullivan, che ci rimanda al fare fotografico: le tracce nella sabbia ci parlano di un accurato posizionamento del carro, le orme tracciano il percorso del fotografo che si è mosso per raggiungere la posizione di ripresa, che è poi quella dove siamo noi, che guardiamo dentro a questa immagine – come sempre: ma quelle orme ci fanno sentire lì, con un po’ di sabbia tra le dita.
L’orizzonte è nascosto, e mi è sempre parsa evidente la sensazione di trovarsi in mezzo ad un infinito Sahara, solitari e con l’unica rassicurante presenza del carro. Una immagine che pur senza essere drammatica allude all’avventura, al rischio dell’esplorazione, all’infinito di un vero viaggio.

Non è l’unica fotografia realizzata in quella campagna dove appaia quel carro. Ad esempio quella qui sotto ce lo fa vedere, più o meno con una ripresa simile, leggermente dall’alto. Ma la visione dell’orizzonte, e delle figure umane, mi pare faccia sì che qui non vi sia la magia evocativa della precedente, pur conservandone la purezza della luce e dell’essenzialità documentaria.

Timothy H. O'Sullivan, Steamboat Springs, Nevada, 1867

Timothy H. O’Sullivan, Steamboat Springs, Nevada, 1867

 

Qualche tempo fa ho avuto la curiosità di cercare dove fosse quel deserto, ed è bastata una veloce ricerca in rete per trovarlo. E con una certa sorpresa mi sono accorto che la duna dove era stato ripreso quel carro non è in mezzo a un immenso Sahara, bensì è, appunto, solo una grande duna. In un territorio indubbiamente desertico, ma diverso da quello che quella immagine ci fa immaginare. Andando a studiarsi meglio la cosa si capisce che anche ai tempi di O’Sullivan quella duna era nota, punto di riferimento per la rotta che avevano seguito decine di migliaia di cercatori d’oro e di migranti diretti verso la California già un decennio prima. E le stesse descrizioni di Clarence King della zona non sono così drammatiche, parlando di vegetazione lungo il Carson River.

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E oggi? Al di là di intenzioni refotografiche, allego qui sotto alcuni screenshot, che mostrano la duna oggi. Non credo che sia cambiato molto nel paesaggio dai tempi di O’Sullivan. Certo, l’area è frequentata da altri tipi di carri. E nelle vicinanze ci sono alcune di quelle inquietanti zone di esperimenti militari che hanno il nome che inizia per Bravo seguito da un numero – chissà cosa ci sia di “Bravo” in queste cose… In particolare, nelle vicinanze di Fallon (cittadina che ai tempi di O’Sullivan ancora non esisteva, situata a poche miglia dalla duna) si estende l’area Bravo 20, nella quale negli anni 80 del Novecento un altro grande della fotografia americana, Richard Misrach, ha fatto alcune delle sue più belle e drammatiche fotografie dei suoi Desert Cantos.

 

Cosa ne esce da queste piccole scoperte? Che Timothy O’Sullivan era un grande fotografo. E che sapeva, come tutti i grandi fotografi, manipolare la realtà in modo che apparisse quello che era, grazie alla pienezza di uno stile documentario usato al meglio, ma anche qualcos’altro – quello che il fotografo voleva far sentire, oltre che vedere. E non c’è proprio nulla di nuovo o di strano nell’accorgersi di questo.
Presto riparleremo delle immagini riprese da O’Sullivan nel corso di queste campagne di “rilevamento” del territorio, che tanto hanno influenzato molta fotografia del Novecento e contemporanea – e delle loro scelte, appunto, manipolatrici della cosiddetta realtà.

 

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Bisogna imparare a pescare

Pochi giorni fa ho pubblicato sul blog un post che riproduce una mail che avevo mandato a un amico, una lista molto personale e mirata di ragioni per le quali lo definivo artista. Credo sia stata letta anche come una sorta di checklist nella quale più o meno riconoscersi (non lo era!) e mi sono arrivati, sia in via privata che sulla mia pagina facebook, alcuni commenti. Maurizio Montagna, in particolare, ha fatto due interventi (inframmezzati da una mia breve risposta) piuttosto lunghi e appassionati, che voglio riprodurre qui nel blog – sia per farli sfuggire alla dittatura divorante di facebook, che ne farebbe presto sparire la sostanza, sia perché li ritengo interessanti nel loro essere testimonianza dello stato d’animo che credo in queste fasi storiche molti fotografi condividano. È un testo scritto di getto, in sostanza più una trascrizione diretta di un flusso di pensieri che un testo limato e meditato – Maurizio Montagna è stato d’accordo nel riprodurlo così anche qui, senza particolari interventi o riscritture.

 

Le migliori “trote” che ho preso hanno abboccato con le mosche “sbagliate”, lì ho capito che spesso le regole servono per non farti pensare ed essere curioso della realtà che stai vivendo.
Nonostante questo potrei fare una lista di intendimenti per essere un buon pescatore a mosca, del tipo:
Impara a leggere il fiume, conosci perfettamente i pesci che vuoi insidiare, studia approfonditamente lo stadio vitale degli insetti, controlla con cura l’attrezzatura da pesca, cerca di avere a disposizione tutte le imitazioni possibili di insetti vivi o morti e allenati molto nel lancio e nella tecnica di recupero, ovviamente inizia a pescare ad un’ora adeguata…
…poi, ti accorgerai che nella giornata memorabile di pesca che ricorderai tutta la vita tutte le regole che ti sembravano assolutamente necessarie non ti sono servite assolutamente a nulla.

Ti sentirai un gran pescatore solo quando, comprendendolo profondamente, non sentirai necessario farlo presente ad alcuno e palesarlo con ostentazione, anzi sarà un segreto che gelosamente custodirai nel cuore, cosciente che l’avrai condiviso, con il fiume, le montagne, la trota che hai catturato alla quale poi magari hai donato la libertà…

La libertà, quindi l’amore e il rispetto per la “disciplina” artistica (la pesca a mosca è un’arte) che si sta praticando e quindi altrettanto rispetto per gli altri pescatori, prendendo coscienza che ognuno di loro un giorno o l’altro vivrà una giornata di pesca memorabile, e non saranno i nostri consigli a rendere più epica la sua esperienza e che è anzi probabile che l’imitazione che abbiamo denigrato perché non adatta al fiume, magari imperfetta nelle costruzione o non in auge con le tecniche moderne, gli regalerà le più memorabile delle catture…

Forse così si diventa pescatori a mosca…

 

Caro Maurizio, grazie di quanto scrivi, che mi ha fatto venire in mente simili analogie tra la fotografia e la pesca espresse da Stephen Shore in un testo presente in uno dei primi libri che mi abbiano influenzato davvero (Dialectical Landscapes, 1987). Qui lo si trova in inglese  – da oggi terrò vicini questi due testi… Quanto alle regole, siamo entrambi docenti dunque ne conosciamo bene le forze e le debolezze, e mi pare bello e ricco avere tanti pensieri su di esse.

 

Caro Luca, vero conosco il testo di Shore e ovviamente per più di una ragione ne sono rimasto affascinato. Ma la relazione con la pesca a mosca, mi è venuta in mente perché in una certa misura è una pratica che conosco meglio della fotografia, e se non meglio, ho iniziato a praticarla da quando avevo poco più di 12 anni.

Poco tempo fa ho letto un bel libro, A pesca nelle pozze più profonde, di Paolo Cognetti. Il giovane scrittore scrive : «A un certo punto del mio apprendistato mi misi in testa che, se volevo diventare un bravo scrittore di racconti, dovevo imparare a pescare», il libro si articola in tre parti; nella prima, in particolare, trova e motiva delle interessanti analogie tra il pescatore a mosca e lo scrittore di racconti. Da questo libro, e da come tratta le ragioni della sua scelta di diventare un pescatore a mosca, Cognetti mi ha fatto meglio comprendere le ragioni della mia passione per la fotografia attraverso dei parallelismi e delle riflessioni veramente acute e divertenti.

Io di sicuro non sono un “grande” pescatore a mosca, e non tanto per la mancanza di passione o di sensibilità o talento, ma perché negli ultimi anni ho diminuito molto la frequentazioni  di fiumi e torrenti, e questo tipo di pesca ha sicuramente bisogno di un minimo di continuità nella sua pratica, la natura è viva si muove, racconta sempre cose diverse, anche se non sembra, bisogna stare “aggiornati”…
Magari chi sta leggendo questi “post” sorriderà, ma se oltre che qualche fotografo, ci fosse anche qualche “moscaiolo” di quelli seri, potrebbe entusiasmarsi con le mie riflessioni.

La pesca, ovviamente non è una pratica prettamente ludica, lo è diventata nei secoli, per me è stata ragione di vita, da poco più che bambino fino ad oggi vado in visibilio già al solo pensare il corso d’acqua che mi vedrà in azione nella battuta di pesca, immaginandone i tratti:  lame di corrente veloce, cascate e pozze, dove le possibili prede sono ben mimetizzate aspettando con il muso verso la corrente insetti e altri animaletti da predare….

Definirei con il termine PASSIONE questo mio stato d’estasi, che ovviamente con gli anni forse ha perso quella parte sognatrice e immaginifica della giovane età, ma certo, come un grande amore, è rimasto un solco profondo nelle mia esistenza, e quando vedo l’acqua entro in un altro mondo.

Ora, non mi spingo in  complesse relazioni tra la pesca a mosca e la  fotografia e se legami fossero presenti, potrebbero essere vicende che appartengono alla stretta sfera personale o ancora meglio sensoriale; certo non posso negare che ci siano una o più similitudini quando mi presto a fermare la mia attenzione su un possibile soggetto o su una possibile preda.

Per quanto  mi riguarda trovo che il senso della posizione al fine di trovarsi in un punto privilegiato nei confronti della preda/soggetto, la relazione con il “tempo” o meglio l’attimo, e l’ovvia sorpresa del risultato dell’azione che abbiamo messo in atto, sono le azioni che accomunano in maniera molto semplificata le due azioni…

Ecco cosa forse cos’è la parte artistica  della fotografia, quella “vicenda” esperienziale che purtroppo si sta perdendo per colpa in primis dei fotografi/artisti (definizione  terribile) e poi di chi se ne occupa più o meno in maniera  diretta; per esperienziale intendo la relazione con la realtà con il fatto fisicamente di “esserci” dentro le proprie fotografie, e di cercare di non solo comprendere il soggetto, ma di definirlo con un approccio che non debba mettere a repentaglio il fatto stesso di fotografare.

Molto più facile e “glamour”, per fare un esempio, pensare che la fotografia possa essere “tratta” da photo editor di lusso, magari colti e e snob, dove la realtà, quella del “è stato” è stata “risignificata” da un’azione  molto spesso di una banalità inaudita: prelevarla dalla “rete” o da un archivio… che tristezza, o meglio che pochezza, e quanto poco dureranno i risultati prodotti da quella che per altro non è neanche un azione  così innovativa…
Tuttavia con questa “modesta” operazione, questi personaggi si spogliano dello scomodo appellativo di fotografo, e diventano magicamente artisti… ed ecco che torniamo al tuo catalogo comportamentale…:), nella tua descrizione, ci sono alcune azioni/condizioni  totalmente assenti negli  “artisti” menzionati.

Chi è un artista? Può, un artista lavorare con la realtà? Quale è il senso di questa operazione, quando il mondo “colto” dell’arte non ha ancora capito, non cos’è una fotografia (anche su questo ho qualche dubbio) , ma cosa vuole dire FOTOGRAFARE?

Beh, sai cosa caro Luca,  sicuramente si può produrre un buon progetto fotografico con l’iPhone, e se si ha talento, intelligenza e si ha ovviamente capito che dare senso alla realtà non è fare un semplice fotografia, dare senso ad una fotografia vuole dire cercare un’immagine, creando relazioni tra forma, significato, e soprattutto che sia decodificabile nel tempo, come le immagini che ci hanno preceduto sulle quali forse dovremmo riflettere ancora.

Siamo partiti dalla pesca a mosca e con questa vorrei chiudere ricordandoti che se vai sul torrente, senza un briciolo  di esperienza, senza anni di lanci e recuperi, senza saper leggere un fiume… ti conviene andare in pescheria, dove puoi catturare tutti i pesci che vuoi  proprio “come in/nella rete” ma non sarai mai un pescatore a mosca, perché  i pesci che prendi sono “MORTI” e pescati da qualcun  altro e al limite li puoi fare al forno… auspicando almeno un minimo  di coraggio e talento tra i fornelli…

 

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